Editoriale

L’abisso della violenza

11 Apr 2022

di Emanuele Carrieri

La guerra fa paura. A tutti, nessuno escluso. E toglie tutte le dignità, a tutti. Negli ultimi giorni, dopo le terribili immagini provenienti da Bucha, si parla tanto di “crimini di guerra”: una definizione che pare fatta apposta per fissare un confine fra un orrore giustificato e uno da condannare, da punire. L’orrore è orrore per tutti, come la morte è morte, per tutti. Un giovane è un giovane, un bimbo è un bimbo, un morto è un morto, maschio oppure femmina, piccolo o grande, non c’è differenza. Il suono della parola guerra è orribile. È un sibilo, violento e metallico, che squarcia il cielo e impedisce alle nuvole di continuare a essere bianche. Le fa diventare rosse di sangue e nere di livore in un battito di ciglia. La guerra puzza di bruciato, puzza di morte, di sangue che riempie le trincee della storia e le trasforma in tombe. La guerra è un linguaggio che porta con sé disperazione, un carico di terrore e sofferenza illogico, schiaccia la vita di chi muore e rovina quella di chi resta, per sempre. Ogni volta la storia si ripete e ogni volta le armi sono sempre più devastatrici perché più precise e sofisticate. Mirano il nemico e lo massacrano, non resta niente, forse solamente qualche brandello di una divisa che sembrava bella, che avrebbe potuto fare colpo su una ragazza, morta anche lei dilaniata da una bomba, esplosa nella sua macchina, centrata in pieno da un proiettile vagante, morta in una cantina mentre, con la testa sotto il cuscino, cercava di non sentire il boato delle esplosioni. La guerra è questo, la morte sulla terra. È la fuga di ogni speranza, l’abdicazione dei nostri sentimenti più puri alla brutalità e alla ferocia condensate nella esistenza, come l’antimateria in un buco nero. È quel sangue, rosso come il fuoco, che ci tiene in vita, la nostra linfa vitale, il nostro nutrimento, il nostro giorno e la nostra notte. Senza sangue il cuore non pompa più, si arresta e si addormenta nel suo dolore. La morte di un cuore è la morte della persona che lo ospita. La morte di tanti cuori è una catastrofe umana. È la fine della nostra dignità. Dopo la guerra non resterà più pace a chi la guerra ha scatenato, neppure a chi l’ha subita. La parola pace diventa una parola vuota perché non può più nutrirsi di buoni ricordi ma di orrore. Non si instaura la pace dopo la guerra, giacché nessuno sa più cosa sia, né dove la si possa trovare. Si perde la bussola, la via maestra verso la civiltà. L’odio per le vite spezzate e rubate al loro tempo non riesce a capire alcun tipo di pace se non attraverso un percorso liberatorio, purificatorio, assai lungo, movimentato, non alla portata di tutti. Rimane il dolore. È un dolore che grida sempre molto forte, che padroneggia tutto: i buoni pensieri, l’aria leggera, gli occhi trasparenti dei bambini. Negli occhi trasparenti dei bambini non esiste la consapevolezza della guerra. È forse proprio per questo fatto che sono trasparenti come l’aria pura. Negli occhi trasparenti dei bambini c’è sempre il bisogno di giocare, di crescere e di vivere. E la guerra li rende improvvisamente opachi, non brillano più. I bambini in guerra hanno gli identici occhi opachi dei vecchi, la stessa tristezza, la stessa indifferenza. Non vedono più niente di bello, perché ciò che era bello non esiste più. Gli occhi dei bambini in guerra non vedono l’amore perché l’hanno perduto, non vedono la pace e non vedono alcun perdono. Gli occhi dei bambini in guerra non scorgono l’alba celeste, le nuvole bianche, il sole giallo che spunta dall’orizzonte e che riscalda il cuore. Sono occhi abituati al rosso, al nero, al viola, alla morte e non brillano più. Basta fermare lo sguardo sulla foto scattata nell’inferno di Bucha da Rodrigo Abd, un fotoreporter argentino dell’Associated Press, premio Pulitzer nel 2013 per i suoi servizi sulla guerra siriana. La foto di questo bambino è un concentrato di sofferenza e tenerezza. Il protagonista di questo scatto è Vlad Tanyuk, 6 anni, immortalato poco lontano dal cumulo di terra pieno di lacrime che fa da sepoltura alla madre. Ogni giorno il piccolo Vlad va sulla tomba della sua mamma, sepolta di corsa nel giardinetto di casa, per portarle qualcosa da mangiare, quello che le è mancato nei suoi ultimi giorni. Sì, perché è morta di fame. Si vede un contenitore di succo di frutta e dei barattoli. È tutto ciò che lui è riuscito a trovare per confortare la mamma che ormai non c’è più e che lui immagina di poter aiutare. Non servono dei fiori, nemmeno dei lumini accesi, pensa Vlad, che sarebbero per giunta impossibili da trovare nel mezzo della guerra Alla sua mamma che lui ha visto morire di fame, di stenti, serve cibo per riprendersi. E gli orrori della guerra non saranno mai allontanati dal cuore di questo innocente. Le mani in tasca, il cappuccio azzurro alzato, in cui sembra lui voglia precipitare, trasudano il suo tormento, il suo tentativo di trattenere lacrime disperate, ma prima di tutto e più di tutto trasmettono una sensazione di desolazione e disperazione. È un altro frammento che si aggiunge alla montagna di orrori che, pian piano, sta emergendo dalla guerra combattuta in Ucraina, esempio di dove possa arrivare la violenza dell’uomo, quando la parola lascia il passo alle armi e alla propaganda dell’odio. Ma qual è il limite? Ed è certo che davvero c’è un limite? Fino a quale abisso può arrivare una tale violenza? Fino a quando il raccapriccio per tutto quello che sta succedendo non sarà rimpiazzato dall’abitudine, dall’assuefazione, dalla routine?

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