L'argomento

Referendum: per De Feis esistono esigenze reali alla base dei quesiti

09 Giu 2022

di Silvano Trevisani

Come annunciato, torniamo a parlare, oggi, della questione referendum, che abbiano ritenuto opportuno approfondire in vista dell’ormai prossimo appuntamento, soprattutto per la scarsa informazione che sta caratterizzando la vigilia e che sembra coinvolgere anche i promotori dei cinque quesiti, sui quali siamo chiamati a esprimerci. Ci si domanda se questo sia effetto di una scarsa convinzione, che è andata maturando, sia del raggiungimento del quorum, sia degli effetti reali che anche una vittoria del sì avrebbe, dal momento che è in itinere la riforma della giustizia firmata Cartabia.

Ieri abbiamo ascoltato un parere sul ruolo di questi referendum, oggi coinvolgiamo nella lettura dei quesiti un noto avvocato dalla lunga militanza, anche politica: Franco De Feis, che è anche l’ideatore e il coordinatore dell’Associazione di cultura giuridica Tarenti Cives e che ha un orientamento positivo circa l’accoglimento dei quesiti e quanto meno delle ragioni che sono alla base. Vediamo perché.

Cominciamo dal primo referendum, quello che propone l’abolizione della legge Severino. Quali conseguenze potrebbe avere il “sì”.

È chiaro che tutta la legge sarebbe annullata, ma è bene ricordare che la legge in questione da un lato rende incandidabile chi ha subito condanne definitive, dall’altro prevede anche la sospensione di sindaci e amministratori locali anche in presenza di sentenze non definitive. Nel momento in cui sospendi dalle funzioni chi svolge un ruolo pubblico importante, perché condannato in primo grado, con una sentenza che non di rado viene ribaltata, pregiudichi insanabilmente una funzione. Ricordiamo il caso Di Bello: allora non c’era ancora la legge Severino ma lei si dimise e poi venne assolta con tutto il caos che ne conseguì. Anche l’incandidabilità da sentenze penali, in alcuni casi, è eccessivamente penalizzante.

Il secondo referendum chiede la limitazione delle misure cautelari per le persone accusate di reati.

La custodia cautelare di fatto dispone la carcerazione preventiva per un giudizio a venire, ma che ora non c’è. Essa è motivata, com’è noto da alcune esigenze: evitare la fuga, la distruzione delle prove o la reiterazione del delitto. Ma in molti casi questa “condanna a priori” che una persona subisce perché un pm ha ritenuto di usare la misura restrittiva e il gip ha convalidato in attesa, è troppo severa, soprattutto per reati non gravi.

E veniamo i quesiti sui giudici. Il primo è quello che propone la distinzione tra e funzioni del pubblico ministero e le funzioni giudicanti, della quale si occupa però anche la riforma Cartabia.

Su un piano logico giuridico, chi svolge una funzione giudicante non può essere legato a una delle parti in causa. E si è legati a una delle parti in causa prima di tutto per il fatto che c’è l’elezione a livello circoscrizionale e a livello nazionale dei consigli di giurisdizione, nei quali le due figure stanno insieme, cioè: un inquirente viene eletto anche grazie all’appoggio che ha dal giudice e viceversa: si instaurano così dei rapporti tra pubblico ministero e organo giudicante. Un avvocato non ha e non potrà mai avere questo tipo di rapporto e quindi non c’è pariteticità tra inquirente e difensore. Occorre che il magistrato decida quale carriera fare.

Veniamo al referendum sulla valutazione dell’operato delle toghe.

Per la valutazione, si formano i collegi disciplinari e tra loro valutano la condotta professionale e stabiliscono se qualcosa che non ha funzionato, e in che misura. Tali collegi danno un giudizio che nel 99% dei casi è sempre positivo. E mentre a livello nazionale c’è la possibilità di allargare il collegio giudicante a professori di diritto, a livello circoscrizionale no. Si chiede, quindi, la presenza anche dei rappresentanti dell’avvocatura, da un avvocato scelto dal consiglio dell’ordine in modo tale che rappresenti la categoria, in segno di obiettività.

Ma naturalmente in questo caso non basta il referendum a precisare la composizione. Ma veniamo alla candidabilità al Csm.

L’attuale norma richiede che un magistrato debba ottenere un certo numero di consensi per presentare la candidatura. È logico che in questo modo l’appoggio della candidatura crea dei rapporti che somigliano a quelli politici, nascono così le correnti tra i giudici. Chi viene eletto deve tener sempre presenti le esigenze di chi lo ha sostenuto e questo non è un fatto positivo ai fini dell’equidistanza.

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