Mondo

Le suore di Casablanca

SS. Francesco - Viaggio Apostolico in Marocco: Visita al Centro Rurale di Servizi Sociali 31-03-2019
29 Ago 2022

di Renato Zilio missionario scalabriniano a Casablanca
Casablanca – «Elles vivent en communauté, elles meurent en communauté!» (vivono in comunità e muoiono in comunità) mi soffia qualcuno, discretamente, al funerale. Si, sono tutte là, presenti, disseminate tra i banchi di chiesa. Sono una ventina di missionarie francescane di Maria, la maggior parte anziane, con alle spalle 40/50 anni di Marocco. Tutta una vita nell’insegnamento, nella sanità, negli ospedali, nell’associazionismo. Una vita spesa a fondo perduto per questo popolo del Marocco, coltivando ogni giorno una sorprendente fraternità. Sì, tutte erano attorno alla suora morente per l’ultima Ave Maria. Tutte attorno alla bara in questa chiesa immacolata, ispirata dai tappeti alle pareti all’arte araba. Tutto qui si vive nel mistero dell’incarnazione. Sopra la bara dei simboli, presentati come sempre uno a uno all’inizio della celebrazione. Una croce di san Damiano. Le regole di vita, che lei amava mettere in pratica. Dei lumini, per gli incontri quotidiani, luminosi, con i giovani musulmani : l’insegnamento era la sua passione. Una armonica, perfino, con cui amava allietare momenti di comunità. Qualcuno, poi, ricorda il percorso di vita, tra Algeria e Marocco, mettendo in luce le sue qualità, passate inosservate, forse… Come quella stupenda – ereditata dalla sua terra di Normandia – «di saper dire tutto e saper sentirsi dire tutto». La franchezza!

In un altro quartiere, dal nome di Bourgogne, si notano povertà e trascuratezza. Già da lontano, tuttavia, una piccola siepe vi attira: è fiorita, curata. Crea un altro clima, anzi, si fa messaggio. Povertà e bellezza possono coabitare insieme. Ed è qui che abitano anche loro, le Piccole sorelle di Gesù. Nate nel deserto dell’Algeria come un dono di Dio, quando il deserto sa farsi fecondo, ne portano sempre le caratteristiche, come i cromosomi di un carisma: semplicità, essenzialità, preghiera e fraternità. Sono distribuite in piccole comunità nel Marocco, ben radicate in mezzo alla gente, seppure di tante nazionalità. Parlano arabo come tutti e vivono il mistero di Nazareth in terra d’islam. Coltivano la contemplazione e la fratellanza universale, ereditate da Charles de Foucauld. Alla messa che celebriamo nella loro umile, accogliente cappella le ostie sono pezzetti di pane preparati con cura dalle loro vicine di casa, musulmane. «È per la vostra preghiera» dicono, felici che si preghi anche per loro.
L’islam non è un’ideologia, vi ripetono le Piccole sorelle, ma sono persone. Che esse incontrano ed amano quotidianamente. E questo traspare in loro ad ogni occasione, come per l’ultima arrivata, pronta a fare un duro lavoro di strada, cioè la pulizia del quartiere. Ed è per conoscere la gente. In verità, il loro senso del servizio nelle piccole cose le rende grandi. In un altro quartiere ancora vivono le Clarisse. Sarà un po’ difficile trovarle, si dovrà forse suonare al campanello di qualche vicino… Un muro alto, bianco, nessuna iscrizione fuori come già facessero parte dell’invisibile: è il loro monastero. Sono di varie parti dell’Africa, la superiora è italiana. Al loro canto si aggiunge il suono allegro delle nacchere, del tamburello ed altri strumenti, come in un qualsiasi villaggio africano. Il clima austero del monastero ritorna subito dopo. Allora, il silenzio si fa mistico. La preghiera sale dall’anima stessa.
Era il desiderio di Chiara d’Assisi di venire un giorno nella terra dell’islam, come fu per Francesco. Il desiderio risale a otto secoli fa e il giorno è oggi, con loro. «Il nostro impegno è la preghiera vissuta in questo Paese con i voti di castità, povertà, obbedienza e clausura», vi diranno, misurando le parole. Preparano le ostie per le varie parrocchie della diocesi. Dalle loro mani, inoltre, escono biscotti dorati dall’intenso profumo di vaniglia. Discretamente, come un ospite gradito, i biscotti entrano nelle case musulmane. Fino a quando qualcuno esclamerà: «Abbiamo finito i biscotti ‘de nos soeurs!’». Ed eccoli, allora, di nuovo al monastero… Queste «donne che pregano» sono una grazia per i cristiani. Ma anche testimoni apprezzate per il popolo musulmano che le circonda. Sono segno dell’importanza vitale della presenza di Dio nell’esistenza di ogni essere umano. Da non dimenticare, poi, le tre suore venute recentemente alla chiesa di St. Francois dal Benin, per vari servizi pastorali alla comunità, in particolare, la catechesi: sono le Oblate Catechiste Piccole Servanti dei poveri.  Nel quartiere “Oasi” si erge un imponente e bella costruzione, l’Ècole du Carmel St. Joseph. È diretta da suore venute dal Libano, parlano tranquillamente arabo o francese. Fa parte delle scuole cattoliche, ma di cristiano c’è ben poco, si direbbe, a prima vista… Tutto il migliaio di allievi è, infatti, musulmano, il corpo insegnante è musulmano, così pure il personale di servizio. Ma resta la sostanza. I valori a cui si ispira la scuola sono evangelici, come il rispetto dell’altro, la solidarietà, l’apertura di mente e di cuore, la sincerità, il perdono. Tutto sta scritto nei suoi regolamenti. E, in terra d’Islam, é una bella novità!.
Nel quartiere «Roches Noires», vi sorprenderà una suggestiva chiesa gotica con le sue altissime guglie, diventata una frequentata moschea. Il quartiere, svuotato della presenza francese, aveva a suo tempo visto naturale questa scelta : un luogo di preghiera per altri fedeli, un’altra fede.
Rimane in piedi, però, un segno della presenza di Cristo. A due passi, infatti, abitano le suore di Madre Teresa. Verrà ad aprirvi una giovane con un bimbo tra le braccia e poi un’altra con un pancione di otto mesi,… sono una ventina di ragazze-madri accolte qui con i loro piccoli. Vivono come in una grande famiglia, imparano a stare insieme, a trovare un piccolo lavoro, a far crescere il loro bambino. Ad affrontare una vita, in fondo, che per la società musulmana è una vergogna e una maledizione. Ma per le suore di Madre Teresa sono proprio loro, in fondo, a pronunciare quelle parole scritte in cappella, accanto al Cristo crocifisso: I thirst (Ho sete). Sì, hanno sete di dignità. Qualcuno vi racconterà, poi, il lungo cammino di riconciliazione con le rispettive famiglie, quando la mamma della ragazza si presenterà, finalmente, un giorno per vedere il bambino…
Ma se capitate il martedi, le suore le trovate indaffaratissime in cucina. Per tutto il giorno preparano il cibo, che poi distribuiranno il giorno dopo agli incroci delle strade di Casablanca. Dove si ferma il loro pulmino, come per un alveare, arriva subito attorno uno sciame di giovani migranti subsahariani. Sono là a chiedere di solito l’elemosina alle auto, ferme al semaforo. E sono centinaia. Per loro, queste suore sono un segno della provvidenza di Dio. Un segno del cielo. «Ci sono persone nel mondo così affamate – ricordava Gandhi – che Dio non puo’ apparire loro se non in forma di pane». “Ma quando mai vi riposate… ?” faccio a una di loro, indiana, stanca ma sorridente, nel suo bel sari bianco e blu. «Lo faremo lassù» mi fa, alzando l’indice. E sarà per ricevere, finalmente, l’abbraccio del Signore, che hanno servito fino alla fine. Negli ultimi. E in terra musulmana… che tutte hanno immensamente amato.
Sì, per davvero, benedette suore di Casablanca!

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