Editoriale

Gli affaristi nell’europarlamento

foto Sir/Parlamento europeo
19 Dic 2022

di Emanuele Carrieri

C’è chi ha soprannominato il caso “il Qatargate”, ricordando il noto scandalo politico del Watergate che coinvolse l’ex presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. Per cogliere la matrice del nuovo caso di corruzione basta tornare a Tocqueville, il più grande studioso della democrazia contemporanea: “La democrazia non ha un nemico più insidioso del denaro. È un nemico formidabile perché agisce per vie nascoste e così raggira uomini inconsapevoli”. I raggirati ora sono i cittadini, certi che la forza morale delle istituzioni europee potesse rappresentare un baluardo contro l’influenza contaminatrice delle ventiquattrore di denaro, delle consulenze fasulle, delle donazioni finte, fra l’altro provenienti da regimi di marcato stampo autoritario. Il Parlamento europeo pare essersi trasformato in terreno di caccia per lobbisti, affaristi e traffichini, una piazza di ex-europarlamentari che, smessi i panni di rappresentanti del popolo, subito si rivestono con quelli di agenti dei potentati economici o di potenze straniere. Una immagine desolante, dalla quale se ne ricavano alcune lezioni sulla evoluzione delle pratiche della corruzione. In primo luogo, non vi è alcuna avvisaglia di una tangentopoli europea. Quella inchiesta di casa nostra, iniziata nel 1992, svelò l’esistenza di un meccanismo di regolamentazione della corruzione imperniato sui partiti, capace di disciplinare flussi di scambio fra allocazione di risorse pubbliche e mazzette. Per quanto emerso fino a questo momento, non affiora nel Qatargate una cabina di regia della trama di operazioni illecite, né legami con il finanziamento di organizzazioni partitiche. Però vi sarebbero alcuni snodi, all’interno di una rete estesa e ramificata di contatti informali: si ipotizzano 50 o 60 deputati europei avviluppati nelle relazioni con gli arrestati. Le figure di riferimento non hanno i ruoli di organizzatori, regolatori e garanti, ma di veri procacciatori di affari che sfruttano il proprio capitale di relazioni e di conoscenze e sono pronti a mettersi a disposizione del migliore offerente. Poco o niente importa che si tratti del Qatar desideroso di abbassare i toni della critica alla negazione dei diritti ai lavoratori immigrati oppure di qualsiasi altro facoltoso acquirente dei loro servizi. Così si capisce la prevalenza di implicati dello stesso gruppo parlamentare e della stessa nazionalità, talvolta legati da vincoli affettivi. Senza un centro di potere nella rete della corruzione, capace di mettere ordine nelle transazioni e passaggi di risorse, i partecipanti tendono a inseguire garanzie nella reciproca familiarità. Una fiducia che può discendere da una frequentazione o dal condividere una trascorsa esperienza politica o professionale. Ciò non esclude che altre reti di soggetti di varie nazionalità e orientamenti partitici si siano formate e siano dei pin di accesso per gli stessi o altri interlocutori dotati di un potere di acquisto, in grado di impiegare tecniche a prova di inchiesta, senza farsi trovare con le banconote in casa o le valigie di contanti in auto. Pare che i politici abbiano subito una evoluzione: nel nuovo secolo, operando in un nuovo sistema politico privo dei riferimenti partitici di ieri, si sono legati a chi poteva foraggiarli e proteggersi contro la incertezza dei rovesci di carriera ponendosi a libro paga di portatori di altri interessi. Hanno seguito una parabola che li ha tramutati in affaristi che permangono nelle sedi rappresentative e agiscono nel sottobosco, una volta finito l’incarico. Così riescono ad accrescere la soglia del valore delle risorse in gioco fino a vette indistinguibili e se lavorano con astuzia i più abili politici riescono ad agire in un limbo legale. Si può definire corruzione legalizzata quella che passa con la approvazione di provvedimenti per garantire benefici a portatori di altri interessi o a potenze extraeuropee. Nel vuoto di ideali politici e capacità di indirizzo partitico, non c’è più un decreto, una direttiva, un provvedimento, una mozione o una presa di posizione pubblica che non possa essere convertita in merce di scambio. Non più solo un giro di bustarelle in cambio di appalti o di concessioni, ma una nebulizzazione delle contropartite nell’olimpo di una immaginata alta politica, dove perfino le scelte legislative o di governo derivano da una campagna – acquisti fatta nel retro della rappresentazione democratica. Soltanto ricollegandole alla flagranza delle mazzette, si potranno riconoscere come importo della corruzione i viaggi, le relazioni, le opinioni pronunciate in sedi politiche o istituzionali. È chiara la natura tossica di queste pratiche, che avvolgono qualsiasi opinione e qualsiasi decisione democratica in una coltre di sospetti sulle sue autentiche motivazioni, alimentando disincanto e sfiducia nei cittadini, che vedono oscillare anche questo baluardo.

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