Il coraggio politico di fare scelte appropriate
Due tragedie in un breve lasso di tempo, a poche ore una dall’altra. Due tragedie all’interno delle mura della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, più conosciuta come il carcere delle “Vallette”: una donna si è uccisa e l’altra reclusa si è lasciata morire, rifiutando acqua, cibo e cure. Aveva 28 anni la prima mentre la seconda, di 43 anni, non era in sciopero della fame: si è lasciata andare, giorno per giorno, forse per disperazione. Continuava solamente a ripetere che voleva vedere il figlio di quattro anni rimasto con il padre. In carcere si muore e si muore di carcere, si muore per carcere. La tragica fine di due donne incarcerate rappresenta una circostanza drammatica, un punto di vero e proprio non ritorno per l’apparato che dovrebbe amministrare la giustizia, una volta che le sentenze sono diventate definitive. Quelle due vite spezzate hanno camminato sui fili sottili dell’indifferenza, del disinteresse, delle parole e dei discorsi vuoti e scontati. Così, nel bel mezzo dell’estate, quasi sempre nel periodo a cavallo di Ferragosto, come tutti gli anni, il problema delle carceri diventa l’argomento della prima pagina per qualche giorno per poi pian piano scomparire, offuscarsi. Diceva un dimenticato proverbio: “i detenuti non votano”, ma sono il prodotto delle scelte politiche e delle strategie sociali che determinano e definiscono le disparità e le diseguaglianze. Così, quando a cavallo di Ferragosto, piomba la notizia della morte di due donne detenute, si scopre la disumanità del carcere. Da sempre, tutti i ministri della Giustizia hanno sempre ribadito, evidenziato, sottolineato che lo Stato non abbandona mai nessuno, che un suicidio nelle carceri è una doppia sconfitta, è una sofferenza che avvolge le corde della nostra sensibilità. I radicali, da anni, invitano tutti i parlamentari a fare visita ai carcerati il giorno di Ferragosto e alcuni, non molti, come in una sconcertante passerella all’insegna del “ma io ci sono andato”, si presentano felici e contenti ma, prima di tutto, disponibili alle domande di qualche cronista e a favore delle telecamere. Dialogano con qualcuno e dopo ritornano alla loro ordinarietà, alla loro quotidianità. Dei problemi delle carceri non ne parleranno più. Fino al prossimo suicidio, fino alla prossima rivolta, fino al prossimo pestaggio. Subito ci si focalizza sul numero dei detenuti e sulla capienza dei nostri istituti: in carcere ci sono 58 mila reclusi a fronte di una capienza di 51 mila posti letto. A spanne, ci sono circa settemila persone in più, un po’ come un albergo con prenotazioni in eccesso con mastodontiche difficoltà a sistemare e occuparsi delle necessità di queste persone, più ultime degli ultimi. Così, a Ferragosto, vengono concepite e partorite le soluzioni fra le più disparate e futuribili che non saranno mai realizzate. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, durante la visita al carcere di Torino ha dichiarato che fabbricare delle carceri nuove: “è costosissimo, oltre che impossibile sotto il profilo temporale. Con cifre molto inferiori possiamo riadattare beni demaniali in mano al Ministero della Difesa compatibili con l’utilizzazione carceraria”. Non ha tirato fuori il coniglio dal cilindro: la soluzione non è nuova, anzi. Se ne parlava durante l’emergenza sovraffollamento degli anni 2010/2011, quando sull’Italia pendeva la possibilità di una seconda condanna da parte della Corte europea dei diritti e l’utilizzazione di caserme dismesse sembrava il cammino giusto da percorrere per sistemare i detenuti meno pericolosi. Ma poi il dibattito scemò e dalle stanze ministeriali scomparve del tutto, così come quello terribile e pericoloso di usare delle navi da tenere al largo come galere galleggianti. Un po’ come la chiatta Bibby Stockholm, ormeggiata a una banchina di Portland per “accogliere” i richiedenti asilo nel civile Regno Unito. E così, alla vigilia di Ferragosto, si ridispone sul piatto delle possibilità quella di ripartire dalle caserme dismesse che non risolve nessun problema e serve soltanto per continuare a non volersi occupare seriamente di carcere. È da anni che si chiede un’attenzione diversa alle misure alternative alla detenzione, una visione della giustizia molto meno incentrata sulla carcerazione, ma, a fronte del sovraffollamento, al vivere in pochissimi metri senza aria e senza prospettiva, le uniche soluzioni che si prospettano sono sempre legate al carcere, inteso come perimetro di chiusura e di isolamento. Il pericolo è quello di utilizzare le caserme, elevare il numero degli istituti e amplificare i problemi. Le caserme non sono la strada dell’alternativa al carcere proprio perché finirebbero per risultare una copia malriuscita di un penitenziario che dovrebbe, invece, guardare alla rieducazione del condannato. Manca il coraggio politico di una azione seria, fondata sulla riabilitazione (nominativo laico della Redenzione cristiana!), sul reinserimento, sull’inclusione, sulla reintegrazione, sul lavoro e sulle opportunità. È così: non tutti i detenuti votano. Hanno, in ogni caso, la necessità di costruirsi un futuro fuori dal carcere e dalle caserme. Ma, soprattutto, fuori da tutti gli steccati ideologici o, in altre parole, senza le zavorre ideologiche, che rendono fuori tempo coloro i quali le custodiscono come se fossero dei simulacri.