Ma davvero è tutta colpa loro?

Ma cosa si può scrivere che non sia già stato scritto nel momento in cui avvengono tragedie come quella accaduta a Bergamo, fra sabato e domenica, quando è un ragazzo ad ammazzare un altro ragazzo, per di più per inconsistenti motivi come il tifo calcistico? Forse è meglio non scrivere niente, cercando di domare e frenare la rabbia e l’indignazione che cresce e straripa dentro per un atto di così inaudita violenza, impossibile da comprendere e tanto più da giustificare. Ma rimanere in silenzio non vuole dire rassegnarsi al fatto che oggi il mondo va così, liquidando un omicidio come il prodotto della incapacità dei ragazzi di conformarsi alle regole e di rispettare i divieti, accettando e giustificando in qualche modo la violenza dei loro comportamenti come la logica conseguenza dello smodato consumo di alcolici o superalcolici o stupefacenti perché altro non possono o non sanno o non vogliono fare. Quel silenzio, invece, dovrebbe, o meglio, deve avere in sé la forza per incominciare un approccio diverso, che cerchi di comprendere il “perché” di tutto ciò che avviene. D’accordo sul disagio giovanile, sul vuoto esistenziale nel quale vivono e dal quale non sanno più come liberarsi, sull’isolamento per circoscrivere la pandemia che ha amplificato a dismisura il loro malessere, sulla loro incapacità di riconoscere la realtà vera dalla realtà virtuale nella quale sono sprofondati attraverso lo schermo del cellulare, ma tutto questo deve essere soltanto un punto di partenza, non certo un punto di arrivo. In questo tempo, in questa società, molti ragazzi non sono capaci di attribuire valore alla vita umana: scambiano la violenza verbale dei social piuttosto che quella fisica dei giochi elettronici come parametro su cui misurare la propria forza nei confronti di ogni altro, di tutti gli altri. Cosa scrivere del loro essere vittime di un autismo relazionale mai registrato prima? Ma davvero è tutta colpa loro? Quando loro crescevano, gli adulti dove erano? Chi li educava? Quei valori che non riconoscono, sono stati tramandati loro per davvero e sul serio? Gli adulti sono stati davvero credibili in questa particolarissima trasmissione del sapere o non tanto? E che cosa possono fare i ragazzi se il mondo adulto, che dovrebbe essere loro di esempio, ha assunto, come modello, proprio quello giovanile, in nome di una giovinezza perenne? Il disagio che loro manifestano non è lo stesso in cui, forse senza rendersene conto, sono immersi anche gli adulti, a cui torna invece più conveniente far finta di nulla per non scalfire in alcun modo l’opinione che gli altri hanno di loro? Gli adulti simulano perché torna tutto molto comodo, loro, invece, vanno in stato confusionale e si affidano ai gesti e alle imprese di violenza per comunicare che esistono, per dimostrare che loro le convenzioni sono capaci di ribaltarle. Non ha senso, anche perché dovrebbero sapere di compiere un reato per il quale c’è un principio di responsabilità, ma potrebbe essere una lettura diversa per iniziare un percorso. Il disagio dei ragazzi sembra sia espressione del disagio collettivo che viviamo tutti da ormai molto tempo. La mancanza di prospettiva, di un futuro da progettare e la incapacità di tenere viva la speranza di un futuro migliore non concernono solo la fase del lockdown: siamo in un tessuto sociale, culturale, educativo, che ci trattiene nel presente, con un orizzonte corto. Nei ragazzi, obbligati a crescere dentro il lockdown, è una sofferenza silenziosa, che alimenta l’angoscia, il terrore della vita e pure lo sconforto. La mancanza di prospettive, l’assenza di un futuro o la incapacità di progettarlo, la carenza di propensione alla speranza e a coglierne l’energia sono fenomeni del nostro tempo, come peraltro viene a galla anche dal contesto internazionale, mai così barcollante da decenni. Se gli adulti non sono in grado di gestire quello che sembra diventare ogni giorno che passa un carico sempre più pesante, perché mai dovrebbero essere capaci di gestirlo i ragazzi? Sono concepiti da una società dell’eccesso, in cui tutto è contrapposizione radicale, forse anche perché i loro stessi genitori hanno perduto il senso dell’equilibrio. Forse hanno fatto di tutto per loro, probabilmente non lo hanno fatto nel modo giusto, rimuovendo dal loro cammino ogni specie di difficoltà, affrescando la vita, davanti ai loro occhi, piena di sole, con molti colori, privandola, invece, dei bianchi e dei neri, di tinte capaci di fare la differenza fra il bello e il brutto, il bene e il male, il buono e il cattivo. Così come scrisse papa Francesco al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione per il Giubileo, “dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto”. Ma a quella speranza, in casi come questi, va affiancata anche la condivisione del calvario, per la famiglia che ha perduto un figlio e per quella il cui figlio ha ucciso un ragazzo. Due famiglie che porteranno sulle spalle ciascuna la propria croce. Per sempre. Nella speranza che prima o poi arrivino ad amare la propria croce. Chi scrive ricorda il volto pallidissimo di monsignor Motolese dopo gli incontri con le famiglie di due ragazzi, al centro di un fatto simile, avvenuto a Taranto nel 1984. Disse a bassa voce: “Solamente la misericordia di Dio e delle creature umane potrà portare luce e speranza alle persone di quelle famiglie”. Niente altro.
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