Aspettando il “Marte Party”
 
                La previsione aveva pochi margini di errore: la collaborazione fra Trump e Musk, appena cominciata, è già finita. La scelta di Musk di fondare un nuovo partito è l’attuazione della previsione, tanto è vero che il nome è tutto un proposito, perché l’“America Party”, appena lanciato da Musk nello scenario da sempre bipartitico del suo paese di naturalizzazione, somiglia a una nuova forza politica inventata per sferrare un tiro mancino a Trump. Musk aveva pure contribuito a farlo eleggere e Trump lo aveva nominato capo del Dipartimento per la efficienza governativa. Ma da Trump, adesso, lo divide il concetto di libertà economica, alimentato dal conflitto fra due “ego” troppo grandi per sopportarsi e addirittura abitare nella stessa casa, quel Partito repubblicano, che il tycoon mette a soqquadro con le sue stranezze. Da diverso tempo ormai, in tutto l’Occidente, le grandi tradizioni delle storie politiche hanno perso sia attrattiva che consenso. Nel vuoto, nella inconsistenza e nella vacuità, crescono a vista d’occhio le formazioni caratterizzate da una centralità del leader, da una mancanza di identità ideologica e da una scarsa autonomia degli organismi interni. Sono i partiti “do it yourself”, i cosiddetti partiti fai-da-te, che spuntano qua e là con lo scopo di conquistare il favore di una sempre più sperduta opinione pubblica, che ha la tendenza di essere sempre a caccia di novità. Alla luce di quanto detto, rimangono gli interrogativi di fondo: che cosa sogna di ottenere l’“America Party” ma, prima di tutto, che cosa, in definitiva, ricaverà? Musk e qualche suo alleato – Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sundar Pichai e altri notabili delle big tech – potranno investire un oceano di danaro nel proposito, che si incardina su un preciso obiettivo, mirato ma non modesto. Mirato perché punta a raccogliere una dozzina di rappresentanti, fra Camera dei rappresentanti e Senato, alle midterm election, le elezioni di medio termine del novembre del prossimo anno; non modesto perché l’“America Party” potrebbe, ottenendo due o tre senatori e una decina di rappresentanti, togliere la maggioranza al Partito repubblicano e diventare, di fatto, il perno della politica americana, almeno di quella parlamentare. Detto in altre parole, avrebbe un potere di veto tale da costringere sia i democratici sia i repubblicani a trattare per far passare qualsiasi norma di legge. Tutto ciò potrebbe avvenire – l’uso del condizionale è necessario – mentre si accavallano “rumor”, indiscrezioni e voci di corridoio, non confermate e non smentite, che Trump voglia adoperare la maggioranza che ha al Congresso per stravolgere la Costituzione e farsi confermare, nel 2028, per un terzo mandato. A prima vista, l’iniziativa di Musk sembra fatta quasi solo a dispetto, vale a dire per danneggiare Trump e i suoi progetti. Pure il modo in cui si è arrivati fino a questo punto potrebbe indurre a pensarlo, fra mille sfrenate accuse reciproche. Ma dietro le quinte c’è un retroscena meno banale. L’“America Party” non ha un vero programma, ma solo una lista di buone intenzioni, comandata, però, da un punto cruciale: ridurre il debito pubblico. Ma un conto è dire, come dice Musk (non a caso aveva la funzione di “tagliare” la spesa pubblica come capo del Dipartimento per la efficienza governativa) che è obbligatorio spendere meno. Altro è fare ciò che fa Trump, con la sua la legge di riconciliazione di bilancio approvata dalla Camera: tagliare le tasse ai redditi alti e tagliare la spesa per i redditi bassi e medio-bassi. Tutto ciò nella speranza di una reazione a catena: i ricchi hanno più danaro, spendono e investono di più, e questo si traduce in un rilancio dell’economia che va a vantaggio pure dei meno ricchi. La cartina al tornasole della inconsistenza delle loro tesi la si trova in tema di Difesa: la scelta di impegnare oltre mille miliardi di dollari in armamenti la dice lunga e fa pure capire che la spirale del debito corre il rischio di avvitarsi ancor più, invece di risanarsi. Questo scenario è di grande inquietudine e rispecchia una crisi totale della politica e delle sue forme di rappresentanza, prima di tutto e al di sopra di tutto negli Stati Uniti, di cui Trump è, nello stesso tempo, sia origine che effetto. Lo sa perfettamente l’Unione europea, alle prese con gli sbandamenti statunitensi su ogni tema all’ordine del giorno: dall’Ucraina, che Trump vorrebbe abbandonare al suo destino cioè allo zar di tutte le Russie, fino ai dazi, con cui il tycoon vorrebbe colpire tutte le importazioni sotto l’insegna di un anacronistico protezionismo “made in Usa”. Dalla consapevolezza che dell’alleato di oltre oceano non ci si deve più fidare, né nella sfera della politica internazionale, né per i rapporti economici, compromessi a colpi di dazi, è giunta la coalizione dei “volenterosi”, cioè paesi europei e, più in generale, dell’occidente, pronti a sostenere Kiev di fronte al disimpegno di Trump. Perché a molti, ma non a tutti, non sfugge che l’Ucraina delinei l’estrema frontiera di quella pace e di quella libertà a fondamento dei valori dell’Unione europea. Non è un caso se ieri si è tenuto a Londra il summit coordinato dal premier inglese Starmer e dal presidente francese Macron. E, sempre ieri, a Roma si è aperta la conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina voluta dalla presidente Meloni, a cui hanno partecipato la presidente della Commissione europea von der Leyen e il presidente ucraino Zelensky. Segnali rilevanti? È un azzardo rispondere a questa domanda. Certo è che – dopo aver assistito al processo di disgregazione che implicò il sistema economico e politico e la struttura sociale del blocco filosovietico – stiamo assistendo allo sbriciolamento di quello filoamericano e alla pericolosa corsa del turbocapitalismo verso l’autodistruzione. Anni fa cantava De Gregori: “la storia dà i brividi, perché nessuno la può fermare”. Ed è meglio rassegnarsi.
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