La politica dei ceffoni

Le immagini al termine del summit nel sud-ovest della Scozia fra Trump e von der Leyen hanno fatto ricomparire il ricordo di una frase del film Gli intoccabili: è quella in cui Al Capone afferma: “Si ottiene più con una parola gentile e una pistola che solo con una parola gentile”. In effetti, l’accordo sui dazi annunciato da Trump e von der Leyen fra sorrisi e strette di mano appare, alla maggior parte degli europei, come una vera e propria Caporetto. Bisogna, però, non commettere un errore: quello di addebitare soltanto ai negoziatori europei la responsabilità di questo “accordo” e non è un errore di battitura l’uso delle virgolette. La realtà è che con un accordo di tale specie viene a essere riconosciuto il passaggio da una relazione di amicizia, o meglio, di sudditanza leggera, con gli Usa a una relazione di sudditanza pesante. Ma sudditanza era già prima. Allo scopo di chiarire, è indispensabile una premessa. Tutti gli accordi evidenziano i rapporti di forza fra le parti: l’accordo fra due cittadini italiani dovrebbe essere nel rispetto della legge del nostro Paese, ma ci sono accordi che non possono essere attuati, perché la legge difende la parte debole e non concede alla parte più forte un risultato più favorevole. Perciò l’accordo fra due parti sorto nel rispetto della legge non rappresenta il rapporto di forza fra le parti, ma un bilanciamento che poggia su tutele inscalfibili a difesa della parte più debole. Però se, come in questo caso, non c’è nessuno sopra le parti o è mancante un organo indipendente, ogni accordo è lecito e descrive il divario nel rapporto di forza. È il nuovo sistema internazionale voluto da Trump, e subito da tutta la comunità internazionale: uno stato di anarchia internazionale dove vige soltanto il perseguimento dell’interesse nazionale, una grande babele in cui il palazzinaro di turno può comportarsi alla stessa stregua del leader di una banda del Bronx. Trump non ha fatto altro che svelare la realtà, chiarire lo stato di fatto, ossia che l’Ue e i suoi stati membri sono dipendenti dagli Usa e pagano un tributo in cambio di una protezione militare. Ma ha anche detto, nelle parole e nei gesti, che il mondo in cui gli Usa garantivano la sicurezza come il cane da guardia è finito. È un dato di fatto che oggi i rapporti di forza fra Usa e Ue sono impari: senza l’ombrello protettivo americano, l’Ue e i suoi stati sarebbero impreparati ad affrontare un presumibile conflitto. Se Trump avesse preteso dazi al cinquanta per cento, a von der Leyen non sarebbe rimasto che accettare: se ha trattato cercando un compromesso, è perché gli stati membri erano d’accordo e sapevano bene che un’escalation avrebbe determinato danni più gravi. Ecco perché la politica dei ceffoni di Trump ha funzionato oltre tutte le previsioni: attaccare gli alleati, impedire loro ogni iniziativa, obbligarli a gioire perché il quindici per cento è minore del trenta per cento minacciato in principio, ha regalato a Trump un trionfo politico. La stabilità che von der Leyen ha sbandierato non è destinata a durare a lungo e cioè solamente fino alla successiva prova di forza di Trump, che si sta intravedendo all’orizzonte: sui semiconduttori, sui farmaci, sui privilegi delle piattaforme digitali, o sull’impegno a rifinanziare il debito pubblico, o a partecipare alla prossima guerra americana. La strategia di Trump di causare disordine internazionale e “caos sistemico”, per affermare il diritto del più forte e imporre tributi ai paesi satelliti, ha avuto, fino a ora, pieno successo: il timore di un disordine ancora peggiore intimidisce alleati, amici e compagni, ma, prima di tutto, rafforza la subalternità che mostrano verso gli Usa. E la caduta del dollaro è parte di questo disordine: dall’arrivo di Trump alla presidenza la moneta ha perso il quindici per cento nei confronti dell’euro. Tutti i prodotti europei stanno già avendo dei rincari per gli americani; investire laggiù appare più attraente per i capitali di tutto il mondo; Wall Street non smette di crescere da aprile ed è sopra i livelli precedenti all’insediamento di Trump. Ma il deficit commerciale più grave gli Usa ce l’hanno con la Cina e i due paesi stanno negoziando: il 12 agosto scadrà la tregua fra i due paesi che aveva bloccato al trenta per cento i dazi, dopo che Trump aveva imposto aumenti oltre il centoquaranta per cento e Pechino aveva risposto colpo su colpo. I negoziati vanno molto al di là della bilancia commerciale: l’export cinese comprende tanti componenti primari delle catene produttive delle multinazionali Usa e dazi eccessivi le metterebbero in difficoltà. Da tanto tempo ormai è in atto uno scontro diretto fra Cina e Usa sulle tecnologie digitali con una alternanza di restrizioni e compromessi. E, poi, ci sono gli oltre settecento miliardi di dollari di debito pubblico Usa che sono nelle mani della Cina. È proprio su tutti questi piani che si va disegnando lo scontro fra la tramontante egemonia Usa e la sempre crescente ascesa della Cina e dei paesi dell’Asia orientale. All’interno di questo panorama – geopolitico, economico e anche diplomatico – la capitolazione, senza riserve, dell’Europa a Trump investe l’avvenire della Ue: i dazi bloccano il modello economico, e tarpano le ali alle esportazioni. Ma c’è di più: gli acquisti “forzati” di energia Usa fanno volare via il Green Deal europeo e l’acquisto di armi americane – Trump ha tanta attenzione e considerazione nei confronti dell’approvazione elettorale della lobby delle armi – fanno dell’Europa un avamposto militare, praticamente innocuo se si considera che dietro l’angolo c’è la Russia, che, nell’arsenale, ha più di cinquemila testate nucleari. Solo comprendendo bene l’aggressività e la disumanità dell’anarchia internazionale, si può sperare che l’Ue si emancipi dal potere americano. Senza quella comprensione, senza una politica e senza un progetto, Bruxelles diventerà, sempre più, una dimenticata ma obbediente periferia di un impero in completo disfacimento.
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