Il silenzio non è un opzione: Gaza chiede giustizia
Perché il mondo cattolico non può rimanere in silenzio davanti al grido di dolore dei bambini di Gaza

Ci sono immagini che difficilmente si possono cancellare o dimenticare. Non sono semplici fotografie che scorrono in televisione o nei feed dei nostri cellulari, sono ferite che squarciano il cuore e rimangono impresse negli occhi e nella mente. Una scuola distrutta, ospedali senza corrente che da luoghi di cura diventano luoghi di morte, piccoli corpi ricoperti di povere e avvolti in candide lenzuola, case rase al suolo, genitori disperati che scavano tra le macerie alla ricerca dei resti dei propri figli, giornalisti e fotoreporter trucidati mentre cercavano di raccontare ciò che accade nella propria città. Gaza oggi è tutto questo: un grido che nessuno può ignorare o fingere di non sentire voltandosi dall’altra parte. Eppure il rischio c’è, e il silenzio si fa un pericolo sempre più incombente. Il rischio di abituarsi a tutto questo dolore, di dire “è così che va il mondo” lasciando tutto all’inerzia che si fa complicità. Non si tratta solo di cronaca: ogni vita spezzata è un richiamo per noi che, dall’altra parte, siamo al sicuro ad osservare; un appello urgente ad alzare la testa dall’intorpidimento delle nostre vite per smettere di ignorare ciò che quotidianamente accade. Il rumore potente, potentissimo di questo conflitto, tutto il dolore che porta con sé ci raggiunge con tutta la sua forza mettendoci con le spalle al muro, inchiodandoci con domande che si fanno sempre più pressanti: come possiamo definire tutto ciò che accade? Perché, in quanto persone di coscienza e comunità di fede non possiamo tacere innanzi a questa immane tragedia umana? Tra macerie, fame e vite spazzate, la tragedia di Gaza solleva un interrogativo che non ammette alcun tipo di silenzio: perché le coscienze del mondo cattolico, e non solo, non possono più rimanere inerti? Dalla definizione di “Genocidio” offerta dal diritto internazionale alle parole dei cardinali Zuppi e Pizzaballa, fino ad arrivare ai moniti di papa Leone e papa Francesco, emerge un invito forte: non abituarsi al male, ma trasformare la preghiera in azione concreta, dando voce a chi oggi non ne ha.
La situazione attuale a Gaza
La Striscia di Gaza è oggi teatro di una crisi umanitaria prolungata e in rapido deterioramento, che colpisce in modo particolarmente grave i bambini: milioni di persone sono sfollate verso le aree interne, le reti elettriche e idriche sono frammentate o assenti, gli ospedali operano al collasso e le catene di approvvigionamento alimentare sono interrotte. Le agenzie umanitarie segnalano che centinaia di migliaia di bambini rischiano la vita per fame e malnutrizione acuta tanto che, nei mesi recenti, si sono verificati decessi infantili attribuibili a condizioni di grave denutrizione e mancanza di cure mediche tempestive. Molti bambini sono stati feriti o uccisi direttamente durante i bombardamenti dell’Idf; altri subiscono traumi profondi (perdita dei genitori, distruzione delle scuole, esposizione prolungata a violenze e lutti) con conseguenze psicologiche e ferite ben visibili nel tempo. L’accesso degli aiuti umanitari è stato ripetutamente rallentato o negato in diverse aree; allo stesso tempo, il numero di strutture sanitarie funzionanti si è drammaticamente ridotto, con interruzioni di servizi salvavita (terapie, interventi di emergenza, vaccinazioni). La combinazione di violenza diretta, collasso dei servizi essenziali e ostacoli umanitari sta producendo un mix più che letale, una catena di effetti che colpisce i più fragili in modo catastrofico. Mentre infuria l’assedio su Gaza City – racconta un infermiere palestinese di Emergency – e l’esodo forzato procede immenso verso sud, «lungo la costa vediamo formarsi un oceano di tende che si estende fino a perdita d’occhio, in una visione sempre più claustrofobica. Fuggendo da Gaza City, le persone hanno smontato e caricato infissi e porte, per rivenderli al mercato come legna da ardere. Sanno che in quelle case non faranno più ritorno»[1]. Centinaia di migliaia sono persone in movimento, da settimane, ma quasi il 90% del territorio è diventato zona militare: non ci sono più luoghi sicuri dove dirigersi, né denaro sufficiente per affrontare il viaggio. Dall’inizio dell’assedio israeliano – scrive Save the Children – oltre 20.000 bambini palestinesi hanno perso la vita, circa un bambino ogni ora dall’ottobre 2023 ad oggi. Bambini con nomi, sogni, desideri e famiglie che li amavano e che hanno cercato di proteggerli con tutte le proprie forze. Tra quei bambini, più di mille non avevano ancora compiuto il primo anno di vita, e quasi la metà è nata durate la guerra, e a causa di essa è stata uccisa. Migliaia sono, invece, i bambini dispersi o presumibilmente sepolti sotto le macerie. «I genitori sono sopraffatti da un dolore profondo, impossibile da elaborare. Sopravvivono alla malnutrizione, agli sfollamenti forzati e ai bombardamenti continui, mentre piangono i loro bambini massacrati. Alcuni hanno visto i propri figli fatti a pezzi dalle esplosioni e parlano di un dolore disumano, dell’impossibilità di dare un ultimo abbraccio, di essere stati privati di un addio. Ricordano gli abbracci mancati, le risate, i pianti, persino i piccoli dispetti. Per loro, ogni respiro è un dolore rinnovato», hanno raccontato alcuni operatori di Save the Children a Gaza[2].
Lo sguardo del diritto internazionale e il peso delle parole
Il 16 settembre 2025 la Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha presentato al Consiglio per i diritti umani, un rapporto chiaro secondo cui le autorità e le forze israeliane hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di Gaza. Settantacinque pagine fitte di testimonianze e dati che, fissano un punto fermo: quanto sta accadendo non può più essere ridotto a “conseguenza inevitabile” della guerra, ma si avvicina drammaticamente alla definizione di genocidio sancita dalla Convenzione del 1948. I riscontri parlano di uccisioni diffuse, sofferenze fisiche e psicologiche, impedimento dell’accesso ad acqua, cibo e cure, devastazione di ospedali e strutture sanitarie. Il rapporto insiste poi su un aspetto che pesa quanto le prove materiali: le dichiarazioni pubbliche. Le parole pronunciate da leader e comandanti che parlano di «annientamento» e «distruzione totale» non sono per i giuristi della Commissione, semplice retorica di guerra, ma indizi concreti di quell’intentio necandi che la Convenzione considera decisiva per qualificare il genocidio. Non si tratta di valutazioni astratte: la Commissione sottolinea che in presenza anche del “solo” rischio genocidio gli Stati non possono restare fermi. La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di Genocidio del 1948 è molto chiara in materia e, oltre a riconoscere il genocidio come un divieto erga omnes, impone un obbligo positivo di prevenzione a carico degli stati. Gli obblighi internazionali, dunque, vieteranno non solo le azioni direttamente finalizzate a commettere tale crimine, ma anche gli atteggiamenti di natura omissiva messi in atto in relazione a condotte lesive attuate da individui (organi o funzionari statali). Pertanto, ciò implicherà un obbligo positivo a carico degli Stati che saranno chiamati a non rimanere inerti. Attaccare ospedali, privare intere popolazioni di beni primari essenziali come acqua e cibo, bombardare aree densamente popolate senza distinguere tra combattenti e innocenti: tutto questo comporterà una violazione del diritto internazionale umanitario. A Gaza, oggi, secondo la Commissione Onu, la parola genocidio non può più essere nascosta: il rapporto segna pertanto il passaggio dall’indicibile al definito, dalla denuncia morale all’inquadramento giuridico e normativo. Il percorso che attende il rapporto è chiaro e noto: il Consiglio per i diritti umani a Ginevra, potrà approvarlo e trasmetterlo ad altri organi; l’Assemblea generale delle Nazioni Unite potrà adottare risoluzioni di condanna o chiedere un parere consultivo alla Corte internazionale di giustizia; il Consiglio di sicurezza, se non bloccato dai veti, potrebbe chiedere deferimenti alla Corte penale internazionale, sanzioni o pressioni diplomatiche. Indipendentemente dall’iter burocratico, però, il dossier ha già un peso giuridico e politico concreto: costituisce un documento ufficiale, destinato a entrare nei procedimenti pendenti all’Aia. Apparentemente si potrebbe pensare che il meccanismo dei veti incrociati, che spesso paralizza il Consiglio di sicurezza, bloccherà ogni decisione. Ma la storia ci insegna che rapporti simili, dal Ruanda all’Ex Jugoslavia, hanno finito per incidere: talvolta lentamente, ma con la forza testarda del diritto internazionale, sicuramente non rapido e lineare, eppure in grado di aprire processi di portata storica che nel tempo producono giustizia. Se il diritto potrebbe indurci alla prudenza, la coscienza ci obbligherà alla compassione e alla denuncia, alla necessità di chiamare le cose con il loro nome anche se ci fanno paura, e dunque, a denunciare. Non basta più dire “non tocca a noi”, l’indifferenza è già una violazione.
Le voci della Chiesa: un’eco che non si può ignorare
Quando il dolore si tramuta in tragedia, in tragedia umana, la Chiesa è chiamata a farsi parola di chi quella parola non ce l’ha. È questa la missione che Papa Francesco ha incarnato negli ultimi anni, con appelli costanti: denunciando che «si continua a morire, a ferire, a distruggere» in Terra Santa[3]; chiedendo la creazione di corridoi umanitari utili a proteggere i civili, nel segno di un atteggiamento che non si limiti alle parole ma all’azione concreta. Bergoglio ha esortato fino all’ultimo la realizzazione di una tregua a Gaza. L’ha fatto anche nel suo ultimo messaggio Urbi et Orbi del 20 aprile 2025: «Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!»[4]. Alla gente della Striscia sotto le bombe – non solo ai 200 palestinesi cattolici che vi abitano – Bergoglio ha rivolto molti dei suoi pensieri negli ultimi 18 mesi in cui è stato in vita, con telefonate quasi quotidiane al parroco di Gaza City, Gabriel Romanelli, dando inizio a quella che Vatican News avrebbe descritto come una “routine serale”. Il suo insegnamento nell’enciclica Fratelli Tutti è diventato bussola morale per tanti cristiani nel mondo, in un tempo segnato da divisioni e conflitti. Nel testo il pontefice argentino ha invitato ogni comunità a non chiudersi nel proprio recinto, ma a farsi solidale poiché la fede non può farsi rifugio per l’indifferenza. Ciò implicherà che le comunità, e i singoli credenti «non tardino a condannare le pratiche ingiuste, passate e presenti»[5]. Se si vuole essere veri fratelli, occorrerà che la fraternità si traduca in impegno concreto verso chi soffre, non solo gesti simbolici. Con l’avvento di Papa Leone XIV, queste voci non si sono placate: assumono forme diverse, ma la medesima urgenza. In uno dei suoi primi atti pubblici, dalla loggia di San Pietro, Papa Leone ha esortato a un immediato cessate il fuoco a Gaza e ha evocato con forza la sofferenza dei civili, ribadendo che «Mai più guerra» è un appello urgente in un mondo lacerato e diviso[6]. Pur evitando di pronunciarsi formalmente sulla parola “genocidio”, Leone XIV ha aggiunto che la sofferenza dei bambini di Gaza è «molto, molto grave» e che non ci permette di essere insensibili[7]. Parole tuonanti sono arrivate in questi mesi dai cardinali Zuppi e Pizzaballa, rispettivamente Presidente della Cei e Patriarca di Gerusalemme, entrambi decisi a non rassegnarsi all’attuale scenario di dolore. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca Latino di Gerusalemme, durante le sue visite a Gaza non porta soltanto conforto spirituale, ma testimonianza concreta e denuncia accorata. Durante un conferenza stampa organizzata insieme al Patriarca ortodosso Teofilo III, Pizzaballa ha confessato di avere il cuore spezzato davanti a scene di carestia, distruzione e sofferenza. «Gli aiuti umanitari non sono solo necessari, sono una questione di vita o di morte. Ogni ora senza cibo, acqua, medicine e riparo causa un profondo danno. L’abbiamo visto: uomini che resistono al sole per ore nella speranza di un semplice pasto. È un’umiliazione difficile da sopportare quando la si vede con i propri occhi. È moralmente inaccettabile e ingiustificabile». Ha chiesto con urgenza ai leader internazionali di intervenire perché: «non può esserci futuro basato sulla prigionia, sullo sfollamento dei palestinesi o sulla vendetta». Ma il suo non è stato solo un viaggio nella miseria umana: Pizzaballa parla anche di “meravigliosa umanità” incontrata in mezzo alle macerie, di comunità cristiane e non, che condividono il poco che hanno. «Abbiamo camminato tra le polveri delle rovine, tra edifici crollati e tende ovunque: nei cortili, nei vicoli, per le strade e sulla spiaggia – tende che sono diventate la casa di chi ha perso tutto. Ci siamo trovati tra famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio perché non vedono alcuna prospettiva di ritorno. I bambini parlavano e giocavano senza battere ciglio: erano già abituati al rumore dei bombardamenti. Eppure, in mezzo a tutto questo, abbiamo incontrato qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di spegnersi. Abbiamo incontrato madri che preparavano da mangiare per gli altri, infermiere che curavano le ferite con gentilezza e persone di tutte le fedi che continuavano a pregare il Dio che vede e non dimentica mai»[8]. Similmente, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI, ha cercato più volte vie per rendere visibile la sofferenza e per chiedere che le istituzioni e ciascuno di noi non resti un mero spettatore affacciato ad una finestra. In una significativa iniziativa a Bologna, Zuppi ha unito le voci cattolica ed ebraica, chiedendo che «tacciano le armi, le operazioni militari a Gaza e il lancio di missili verso Israele. Siano liberati gli ostaggi e restituiti i corpi. Si sfamino gli affamati e siano garantite cure ai feriti. Si permettano corridoi umanitari»[9]. In un gesto altrettanto simbolico ma potente ha letto pubblicamente il 14 agosto a Monte Sole, luogo simbolo dell’eccidio nazista di Marzabotto, oltre 12.000 nomi di bambini morti, palestinesi e israeliani, nella speranza che quel ricordo diventi monito, che il pianto non si trasformi in abitudine. Anche durante la Professione di fede per i giovani italiani riuniti in Piazza San Pietro in occasione del Giubileo dei Giovani, il cardinal Zuppi non ha esitato a invocare una “pace disarmata e disarmante” per un mondo in cui è diventato normale pensarsi l’uno sopra l’altro, gli uni contro gli altri, gli uni senza gli altri; un mondo in cui l’umanità è chiamata a porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità[10]. Ciò che colpisce delle loro parole è la fusione tra indignazione, fraternità e responsabilità: non una denuncia che separa, ma una chiamata che include. Pizzaballa ha insistito che la risposta cristiana non può limitarsi al dolore, ma deve essere impegno concreto: dare cibo, medicine, assistenza, solidarietà, non lasciar nessuno “fuori dal cerchio”. Zuppi ha fatto appello non agli schieramenti, ma all’umanità: che chi ha potere faccia passi di pace, che chi può dia conforto, che chi parla non usi solo parole ma operi scelte che la fede rende visibili. Da un lato, il presidente della CEI ha chiamato la Chiesa italiana a non restare spettatrice: la preghiera deve convertirsi in impegno concreto, affinché la voce del Vangelo non muti in silenzio complice. Dall’altro il Patriarca latino di Gerusalemme vive ogni giorno il conflitto con vicinanza: denunciando che le macerie non cancellano la dignità umana e che ogni vita, anche di chi non conosciamo, merita di essere difesa. Così, le voci della Chiesa si intrecciano – talvolta con accenti differenti, ma tutte convergenti – in un’unica chiamata: non tacere mai di fronte al grido dell’innocenza. Perché la fede che tace diventa muta, ma la fede che parla, anche con fatica, può essere spazio di ricostruzione e di speranza.
Cosa posso fare io, cosa possiamo fare noi innanzi a tutto questo scenario di dolore?
Mi chiedo spesso: cosa potrei fare io, singola, davanti a questa immensità di dolore? Che potere ho? Forse poco, forse nulla. Ma una cosa posso farla: non abituarmi. Non smettere mai di indignarmi. Non considerare “normale” ciò che normale non potrà mai essere. Posso, e possiamo tutti, scegliere di usare le parole non come scudo, ma come strumento per scuotere le coscienze. Posso, e possiamo, iniziare a chiamare le cose con il loro giusto nome. Penso a un bambino di Gaza che non ha pane, che non ha acqua, che non ha più una scuola in cui andare e imparare cose nuove o un ospedale in cui essere curato. Quel bambino potrebbe essere il figlio o il fratello di chiunque. Un bambino che, sin da piccolino, ha già conosciuto tutto il male del mondo, che ha già imparato sulla propria pelle quanto male l’uomo è in grado di fare al suo prossimo. Non è “un altro”. È parte di me, è parte di tutti noi, è fratello di ciascuno di noi. E se io, se noi, rimaniamo in silenzio, fermi alla finestra ad osservare inerti la sua sofferenza, tradiremo non solo la nostra fede, ma la nostra stessa umanità. La nostra opzione, la nostra unica possibilità come esseri umani oggi è diventare quella “candela in mezzo al buio” di cui parla il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Fare luce, diventare luce anche solo rimanendo vigili, attenti e non più silenziosi. Perché il silenzio non è mai neutrale. È un linguaggio, un segnale. E quando i bambini muoiono, quando gli ospedali vengono colpiti, quando le famiglie sono cancellate in un istante, quel silenzio diventa complicità. Ogni volta che restiamo muti di fronte a un’ingiustizia, la lasciamo crescere. Ogni volta che voltiamo lo sguardo, concediamo al male di avere l’ultima parola. Non è questione di geopolitica, non è questione di schierarsi da una o dall’altra, ma di dare concretezza alle parole del Vangelo. Perché il Vangelo ci dice che Dio si riconosce nel volto dei piccoli, dei poveri, degli innocenti. E oggi, a Gaza, il volto di Dio ha le sembianze di un bambino affamato, di una madre che piange disperata che ha perso per sempre il suo bambino, di un padre che non sa come proteggere i suoi figli. Non possiamo più tacere perché questo significherebbe dimenticare il Vangelo. Non un testo da recitare a memoria, ma una chiamata a prendere posizione. Tacere significherebbe tradire quel Gesù crocifisso per noi che soffre in ogni vittima innocente di Gaza. Cosa serve adesso, dunque? Servono azioni concrete, corridoi umanitari e pressioni sulle istituzioni affinché vengano rispettati gli accordi, protetti i civili e garantito l’accesso a cibo e medicinali. Serve anche, e soprattutto, una voce che non abbia paura di dire che la vita di ogni bambino vale infinitamente più di qualsiasi altra strategia politica. In questo il mondo cattolico ha una responsabilità immensa: non solo testimoniare la fede, ma incarnarla nella storia, senza limitarsi a parole di circostanza, diventando voce per chi non ha voce. Tacere, rimanere indifferenti e inerti innanzi all’evolversi degli eventi storici potrebbero sembrare le scelte più comoda. Ma il Vangelo non ci chiede comodità: ci chiede verità, giustizia, amore. E allora la nostra risposta alla tragedia umana che oggi si consuma a Gaza non può che essere una: non tacere mai. Perché nel silenzio i bambini muoiono due volte: la prima sotto le bombe, la seconda nell’indifferenza del mondo. E noi non vogliamo che accada.
[1] https://www.emergency.it/blog/dai-progetti/la-situazione-a-gaza-gli-aggiornamenti-di-emergency/.
[2] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/gaza-oltre-20000-bambini-uccisi-23-mesi-di-guerra.
[3] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-10/papa-francesco-post-angelus-appello-israele-terra-santa.html.
[4] https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/urbi/documents/20250420-urbi-et-orbi-pasqua.html.
[5] https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/10/04/0505/01161.html.
[6] https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/angelus/2025/documents/20250511-regina-caeli.html.
[7] https://www.ansa.it/vaticano/notizie/2025/09/18/il-papa-a-gaza-fatti-orribili-ma-non-mi-pronuncio-su-genocidio_af09dc19-4e92-4276-af51-bae174c1dc82.html.
[8] https://www.lpj.org/it/news/cardinal-pizzaballas-speech.
[9] https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2025-07/palestina-israele-gaza-bologna-zuppi-depaz.html.
[10] https://www.chiesadicagliari.it/2025/08/01/giubileo-lomelia-del-cardinale-zuppi-durante-la-professione-di-fede-dei-giovani-italiani/.
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