Da trenta anni senza Alex
 
                Sono passati trenta anni: il 3 luglio del ’95 Alex Langer si impiccò. Sono trenta anni che la sua morte, nell’anima di chi scrive, si lega, senza rendersi conto del perché, a un altro suicidio: quello di Tito de Alencar Lima. Tito non aveva neanche ventinove anni, era un domenicano brasiliano: la sua anima non superò le torture subite dal regime militare che tiranneggiava nel Paese e si impiccò, il 10 agosto ’74. Subito dopo, in tanti faticarono a credere al suicidio di Alex, ma grazie al ritrovamento di tre scritti da lui lasciati – due in italiano per la moglie Valeria e uno in tedesco, quest’ultimo con i motivi della sua decisione – la verità apparve nella sua interezza, e, paradossalmente, la sua morte gettò una luce anche sulla sua vita. Una vita sorprendente e inimitabile, la sua: ricca di cultura e di esperienze, di impegni e di meditazione, di partecipazione più che attiva e di contemplazione, di laicità e di religiosità, di studio e di operatività, di profezia e di realismo, di politica intransigente. Scrivere di lui è davvero molto complicato, è come scrivere di un gran numero di persone. Si potrebbe scrivere dell’ambientalista, del politico, dell’attivista, del pacifista, del saggista, del credente di ispirazione francescana, dell’europarlamentare, del poliglotta, del cosmopolita, del giornalista, dell’insegnante, dell’intellettuale, del viaggiatore, del traduttore. Ma scrivere anche di tutte queste sue particolarità risulterebbe essere riduttivo perché Alex Langer era tanto più, molto più di tutto questo. Era una sorta di profeta, di testimone del nostro tempo e, come tutti i profeti, ha indicato la rotta verso il domani, verso il futuro, lo ha perfino anticipato in molte sue idee e in molte sue scelte. Ma ha dovuto e ha ritenuto di fermarsi sulla sua soglia, senza poter scorgere e raggiungere la terra promessa nella vita su questa terra. Riferendosi a lui, Otto di Asburgo – Lorena, erede dell’ultimo imperatore di Austria, tenace sostenitore dell’Europa unita, per venti anni eurodeputato, disse: “Se tutti fossero come Alexander, il mondo sarebbe diverso.” Era un costruttore di ponti, un viaggiatore leggero che, con lo zaino in spalla, girava il mondo, lottando in difesa degli esseri umani e dell’ambiente. Come armi, non spuntate ma potentissime, usava il pensiero, la parola, la gentilezza, l’attenzione, la politica e, prima di tutto, i sogni. Come un globetrotter, viaggiava andando di qua e di là, dialogando con tutti e in tutte le lingue. Era altoatesino ed era sudtirolese, era italiano fra i tedeschi e tedesco fra gli italiani, era europeo, era cosmopolita, sempre proiettato verso l’avvenire, verso l’orizzonte. Era uomo di frontiera ma privo di frontiere, che abitava da una parte e anche dall’altra, abitava una lingua e pure l’altra, abitava una cultura e anche l’altra, perché, a lui, servivano tutte, occorrevano tutte, necessitavano tutte. Aveva preso molto sul serio le parole del beato Ugo di san Vittore: “Chi trova dolce la propria patria è solo un tenero dilettante. Chi trova dolci tutte le patrie si è già avviato sulla strada giusta. Ma è perfetto solo chi si sente straniero in ogni luogo.”. Era il più impolitico dei politici ma, forse, il più coraggioso, certo il più generoso, era un uomo senza patria ma con molte patrie. Spese la sua vita per costruire ponti e per unire popoli, per creare un domani di pace e di dialogo: dopo la caduta del muro di Berlino, fu il primo a capire che un mondo era finito per sempre, che ciò che succedeva nei Balcani non era una semplice guerra locale ma un movimento sismico globale e che l’Europa non poteva fare finta di niente. Aveva una opinione dell’Europa conformata ai cambiamenti che in quel momento si stavano verificando e la sua analisi era lucidissima: nel momento in cui crolla il distacco fra est e ovest, crolleranno diverse realtà, si apriranno nuove possibilità, ma si apriranno anche nuove crepe, nuove falle di sofferenza. Fu sicuramente il primo a capire che si apriva un mondo stracolmo di altre contraddizioni, che potevano rivelarsi essere più drammatiche di quelle precedenti: vedeva, in quel contesto, il rischio che si affermassero visioni nazionalistiche che avrebbero potuto guerreggiare fra loro. Capì, prima di tutti e più di tutti, che sarebbe stata appropriata una nuova politica per mantenere in pace i regimi e gli imperi che si andavano sempre più dissolvendo e sottolineava l’esigenza di costruire una Europa della convivenza contro il rischio di nazionalismi, di xenofobie, di sovranismi, di razzismi e di ricadute nei conflitti. Intuì tutto, più di e prima di tutti, e troppo in fretta, percorse migliaia di chilometri, non senza una meta, non nell’incertezza, nello smarrimento, ma per conoscere persone, nuove culture, nuove società, altri mondi. Era un politico vero, perché percepiva la missione e la vocazione della politica, perché non faceva mai finta di niente, nemmeno a quindici anni, quando, a novembre ’61, scriveva su un giornalino: “Vorremmo esistere per tutti, essere di aiuto a tutti ed entrare in contatto con tutti. Il nostro aiuto è aperto a tutti, così come per tutti vale la nostra preghiera. Venite a noi, e vi aiuteremo con tutte le nostre forze Che cosa ci spinge a fare tutto ciò? L’amore per il prossimo. Dobbiamo prendere sul serio la tanto declamata carità cristiana, senza mezze misure.”. Aveva ricercato e scoperto la dirompenza del Vangelo, la potenza rivoluzionaria della novità del Cristianesimo. Alex in tutta la sua vita prese davvero tutto sul serio, davvero tutto senza mezze misure, anche alla fine della sua vita. Trenta anni fa, il 3 luglio del 1995, scelse la incantevole collina di Pian dei Giullari sopra Firenze, scelse un alberello di albicocco per appendere la sua vita a una corda. Lanciò un grido silenzioso: “Continuate in ciò che era giusto!”.
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