La Grande Mela va controcorrente
In questa circostanza, la frase è indicata. “Non lo ha visto arrivare nessuno, veramente nessuno!”. Nelle elezioni del sindaco di New York City di martedì della scorsa settimana, oltre il cinquanta per cento degli elettori ha votato per il democratico socialista Zohran Mamdani – ugandese di nascita, naturalizzato statunitense, figlio di un antropologo e di una regista, islamico sciita, coniugato con Rama Duwaji, texana di nascita ma di origini siriane, animatrice e illustratrice – e meno del quaranta per cento per Andrew Cuomo, indipendente, governatore dello Stato di New York fino al 2021 e dimessosi a seguito di varie accuse di molestie sessuali. Fanalino di coda, Curtis Sliwa, repubblicano ma non affiliato al movimento maga, conduttore radiofonico, con il sette per cento dei suffragi. Questa elezione non ha interessato solo chi ha vinto, ma anche i milioni di newyorkesi che si sono presentati alle urne. Secondo i dati emessi dalla Commissione elettorale della città di New York, sono stati espressi più di due milioni di voti per il sindaco, pari al record dal 1969. Con più di cinque milioni di aventi diritto al voto registrati, l’affluenza del 2025 dimostra chiaramente una volontà di cambiamento. Mamdani si è presentato agli elettori con delle intenzioni fortemente contraddistinte da una grande attenzione sociale: accessibilità economiche, congelamenti degli affitti, asili nido universali e trasporti pubblici gratuiti, finanziati da tasse sui ricchi, scuole gratuite e costruzione di case popolari. La vittoria di questa tornata è stata completata dalla elezione dei governatori del New Jersey, Mikie Sherrill, ex pilota di elicotteri dell’US Army, e della Virginia, Abigail Spanberger, ex agente della Cia, aderenti tutte e due al Partito democratico e già delegate alla Camera dei rappresentanti per i rispettivi stati. Si tratta di due giovani donne, rassicuranti moderate, che, per prime, hanno frantumato il tetto di cristallo e che promettono un mandato di consolidamenti e di miglioramenti sociali. D’altra parte, il malessere sociale diffuso in numerosi strati della collettività americana è del tutto connesso, alla perdita di opportunità e di prospettive, all’interno di una crisi le cui risposte sono, a giusta ragione, considerate insufficienti. Ma mancava il tocco finale, la novità che completa il tutto in grande stile. È arrivata la modifica della legge elettorale in California: già i repubblicani si erano giovati della possibilità legale di modificare i collegi elettorali in modo a loro conveniente, tale da disporre gli avversari in modo che fossero in permanente minoranza usando il fattore etnico, il primo strumento di discriminazione razziale e di neutralizzazione. Pure la democraticissima California ha rivisto i collegi in modo da assicurarsi, per quanto possibile, una stabile maggioranza democratica. È la partenza di una nuova fase della politica americana? Forse, ma è troppo presto per abbandonarsi ad affermazioni tanto precipitose, nonostante il fatto che Trump stia perdendo sia credito che credibilità con la spirale vorticosa di idee e di progetti cui attribuisce sorprendenti successi ai quali, in realtà, non corrispondono evoluzioni, sviluppi, miglioramenti. La politica della forza, della prepotenza, delle minacce, delle rivalse, combinata con la lapalissiana dissociazione fra ciò che pensa, ciò che dice (e non fa!) e ciò che fa Trump con le sue teorie, in realtà, isolazioniste, è stata ampiamente colta dal suo elettorato, punito peraltro sul piano economico dalle folli iniziative del palazzinaro che adesso è alla Casa bianca. Le speranze provocate da Trump, tuttavia, non si sono ancora disgregate. Anche se ridimensionate, non hanno ancora movimentato in modo evidente e significativo il seguito conquistato a novembre dell’anno scorso. Democrazia socialista contro maga trumpiana? Non è in questi termini che si pone il problema, perché il socialismo democratico dei sindaci di varie città europee che fece attuare le buone pratiche e la buona amministrazione, non ha mai incontrato favori negli Stati Uniti. E a tal proposito va ricordata la foto del senatore Bernie Sanders, il più importante esponente della corrente progressista del Partito democratico, visibilmente infreddolito e con le muffole alle mani, durante la cerimonia di insediamento alla Casa bianca di Biden? O il video con Alexandria Ocasio-Cortez – la più giovane deputata mai eletta alla Camera dei rappresentanti – che cantava e ballava sui tetti della Boston University? Ma il filmato era dei tempi in cui era studentessa universitaria. È sotto i nostri occhi la realtà che in questi tempi tante, troppe cose sono mutate e stravolte. Vale un esempio per tutti: la instancabile opposizione della maggioranza di approvare un sistema sanitario pubblico all’europea potrebbe avere perso il senso di difesa della libera scelta di servizi clinici, di sanitari e di strutture ospedaliere al fine di assumere solamente il significato di un servizio alla pari con i tempi che il mondo vive. È necessario, quasi obbligatorio, riportare l’attenzione sulla difficile pratica della moderazione politica e dell’attività propositiva delle idee. Bisogna dare atto che Mamdani ha portato nella politica la voce di chi ogni giorno lotta per restare a galla, ha conquistato il consenso parlando di case accessibili, trasporti gratuiti, asili nido, salari dignitosi. In fin dei conti, di diritti concreti: è uno che non si è arreso all’idea che le disuguaglianze siano “naturali”. Forse, ma non è certo che Mamdani vincerà la sua battaglia: dipenderà dal suo senso della misura e dal suo linguaggio, che è all’opposto del lessico di Trump, estremamente semplice, su un livello scolastico di terza elementare. Si sa che le speranze costano poco: ma se le speranze incrociano il sentimento popolare possono trasformarsi in efficaci interventi sullo status quo. Rimane misterioso il perché Trump preferisca minacciare il mondo piuttosto che accogliere il rispetto che una corte di paesi alleati potrebbe garantirgli. Forse solo uno psichiatra (ma uno bravo!) potrebbe spiegare.
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