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Cercasi libertà disperatamente

epa09784672 Russian policemen detain a protestor during a rally against the entry of Russian troops into Ukraine in Moscow, Russia, 25 February 2022. On February 24, Russian President Vladimir Putin announced the start of a military operation in Ukraine in connection with the situation in the Donbass. The Russian military leadership assured that nothing threatens the civilian population of the country, the goal is to disable the military infrastructure of Ukraine. EPA/MAXIM SHIPENKOV
04 Apr 2022

di Emanuele Carrieri

Anna Politkovskaja, firma di punta della Novaja Gazeta, fu freddata nell’ascensore del suo palazzo, mentre rincasava. Prima e dopo di lei, altri cinque giornalisti di quel periodico sono stati ammazzati. È proprio un brutto vizio quello di raccontare ciò che accade. Adesso la Novaja Gazeta, al cui direttore Dmitrij Muratov è stato conferito il premio Nobel per la pace nel 2021, ha gettato la spugna. Ha lottato come ha potuto in questa terribile stagione di guerra quel team di giornalisti, finché ha sospeso le pubblicazioni. Era l’unico modo per evitare la chiusura definitiva dopo l’avvertimento, il secondo in poco tempo, del minculpop per aver omesso di definire agente straniero una Ong. In russo si chiama Roskomnadzor: è il “servizio per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa”, che controlla i mezzi di comunicazione di massa e decide i relativi oscuramenti, che definisce “operazione militare speciale” la invasione dell’Ucraina, che bolla come fake news i raid e che spinge centinaia di giornalisti, locali e stranieri, a lasciare la Russia. Sono un sopruso, una prepotenza, un abuso quei quindici anni di carcere per chi si discosti dalla narrazione ufficiale. Non c’è verso di aggirare la censura: il cartello “no war” che Marina Ovsyannikova, giornalista di Canale Uno della televisione di stato russa, aveva mostrato nel notiziario di punta è stato oscurato, l’intervista a Zelenskyj non è mai uscita. Così l’ultimo giornale indipendente è uscito con due pagine bianche, simbolo di ciò che non aveva potuto scrivere. Può sembrare poco ma era tanto, e ora pure questo è finito. In Russia c’è solamente il racconto dei media ufficiali. Uno scenario, questo, che innesca una riflessione sulla nostra libertà di informare, sul nostro diritto a essere informati. Del resto lo ha detto anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, in conferenza stampa al termine del Consiglio europeo: “Forse non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia così inquietato: lui è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è libertà di stampa, da noi c’è, è garantita dalla Costituzione. E da noi si sta molto meglio”. Se no, l’ambasciatore della Russia in Italia, Sergey Razov, non avrebbe presentato una denuncia per istigazione a delinquere e apologia di reato contro il direttore della Stampa, Massimo Giannini e contro il giornalista Domenico Quirico, per un articolo dal titolo “Se uccidere Putin è l’unica via d’uscita”, in cui esclude che ciò sia efficace. Certe volte non basta leggere per capire: è indispensabile sapere leggere fra le righe e cioè che, nelle dittature, al peggio non c’è mai fine. Ed è proprio qui la grande contraddizione, una tra le tante, degli attuali tempi, sempre più bui: ci si accapiglia sui contenuti dei programmi televisivi, sulle diverse posizioni, sull’opportunità di dare più o meno spazio a ospiti più o meno competenti e qualificati, e non si riflette che, a poche ore di aereo, ciò è addirittura inimmaginabile perché il taglio è alla radice. Solamente per questo, forse, si dovrebbe trattare con molta cura, come si fa con i beni più preziosi, la nostra libertà di espressione, garantita dalla Costituzione, che consente a chiunque di parlare e di sparlare, a proposito e addirittura a sproposito. Invece non si sottolinea mai abbastanza il difficile e faticoso lavoro dei tanti cronisti sul campo, molti con le garanzie offerte dalle testate per cui lavorano, altri tutelati semplicemente da sé stessi, che rischiano per tutelare il nostro diritto a essere informati. È pressoché impossibile trovare fra quelli italiani giornalisti come i russi Alexey Bobrovsky o Petr Fedorov che negano dai nostri teleschermi la guerra in Ucraina o che dichiarino: “Non stiamo facendo la guerra al popolo ucraino, i nostri colpi sono indirizzati solamente ad obiettivi militari”. Da noi i giornalisti non scompaiono, come sta accadendo ai cronisti ucraini rapiti dai militari russi o dai mercenari al loro servizio, che al ritorno riportano autentiche brutalità: li attirano con l’inganno, mettono un sacco di plastica sulla testa, li portano chissà dove, li interrogano, li massacrano e minacciano perfino di sterminare le loro famiglie per sapere nomi, cognomi, indirizzi, luoghi. È la strategia del terrore che si intreccia con i missili e con le bombe, orrori che si aggiungono al dramma delle guerre, di tutte le guerre, anche quelle dimenticate, perché lontane dai nostri occhi, dalle nostre orecchie, e proprio per questo non fanno paura. Noi che possiamo scrivere e raccontare e commentare, criticare o giudicare senza rischiare la vita o la galera abbiamo una responsabilità in più di fronte a chi ci legge e ascolta e segue. Così come ognuno ha la libertà di credere o no a quello che legge, ascolta, guarda, di preferire una bufala o una fake news a una notizia verificata, di parteggiare per chi la pensa come lui e criticare gli altri. Purché ci ricordi sempre che niente è scontato, che nessun diritto è sottinteso, nessuna libertà è gratis, e, soprattutto, niente è per sempre.

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