La semplicità e l’estrema coerenza tra fede cristiana e modo di vivere fanno di Igor Barreto uno dei più rilevanti esempi nel panorama della poesia contemporanea. Nato in Venezuela ma di origini italiane, Barreto pubblica ora una antologia poetica (che però contiene alcuni frammenti di prosa con “coda” lirica), “Ultimo giorno di viaggio”, tradotto da Alessio Brandolini. La grandezza di questa poetica è la coincidenza tra realtà e interiorità, nel senso che l’amore per la natura, per gli animali (Barreto vive in una casetta di campagna vicino Caracas allevando galline e coltivando l’orto) non esclude la coscienza del male. I suoi punti di riferimento sono tra l’altro esplicitati nelle liriche in una sorta di colloquio segreto, come nel caso del poeta russo Mandel’stam, morto di stenti in un lager sovietico e di Rimbaud che in “Il muro di Mandel’stam” (2018) tornano a chiedere semplicemente il primo la riappropriazione della tenerezza perduta (“ancor più in questo paese/ dove la tenerezza/ è una comune difficoltà”) e il secondo una “gamba artificiale” per riprendere i suoi vagabondaggi dopo l’amputazione per un tumore. Barreto fa i conti con la mancanza di senso senza arrendersi, perché le contraddizioni fanno parte di una circolarità il cui dolore è soprattutto scaturigine dalla ossessione umana di razionalizzare e di nominare le cose. I canti delle creature ricordano echi di un giardino perduto ma che manda ancora bagliori di senso: “il mio gallo/ è un pennuto che canta come l’arcangelo Gabriele/ spaventando le ombre”. San Giovanni della Croce ma anche Whitman, Guénon e il misticismo, cristiano e orientale, Orazio, ma soprattutto il Monte Analogo di Daumal che, pur non citato fa capolino nel viaggio immaginario di “Annapurna” (2012), fanno di “Ultimo giorno di viaggio” un itinerario nella letteratura contemporanea, in particolare la poesia di chi è escluso dal gotha della letteratura, o messo in un cantuccio per motivi politici e ideologici.

Igor Barreto, “Ultimo giorno di viaggio”, Edizioni Fili d’Aquilone, 158 pagine, 15 euro

 

La dimensione del femminile emerge con tutta la sua potenza creativa e la sua forza in “Dieci volti del mistero. Donne che parlarono con Dio”: il percorso di recupero delle storie di Ildegarda di Bingen, Brigida di Svezia, Maria di Gesù d’Agreda, Anna-Katharina Emmerick, Luisa Piccarreta, Elena Aiello, Alexandrina Maria da Costa, Maria Valtorta, Faustina Kowalska, Teresa Musco da parte di Saverio Gaeta, che ha alle spalle molte ricerche su apparizioni e miracoli, passa attraverso lacerti della loro vita, documenti e testimonianze. Il mistero del contatto urticante del divino soprattutto con ragazze povere e non istruite, con le dovute eccezioni di nobili e destinate al trono, come Brigida, ci porta a fare i conti con le domande che la cultura laica ci pone. Se non che proprio Brigida e Ildegarda ci mostrano come il richiamo del sacro non dipenda dalla fragilità emotiva e dalla scarsa razionalità culturale, ma da altro, che non è né suggestione né cedimento all’irrazionale e ai fantasmi interiori. Non solo perché esistono degli elementi costanti nei dialoghi con il divino (la richiesta di espiazione per gli errori dell’umanità: guerre, armi terrificanti, massacri di milioni di persone) ma perché gli elementi sovrannaturali delle stimmate, delle bilocazioni, della levitazione, se da una parte portano alle dovute cautele, dall’altra aprono le porte al mondo del non visibile e dell’intervento divino nel nostro qui e nel nostro ora. Lo stesso peregrinare di alcune, come Brigida, in questo libro rivela la sua vera dimensione di ubbidienza alla voce altra e non ad una fissazione o peggio ad una volontà di conoscere nuovi luoghi: la compatrona d’Europa si sentiva “ormai priva di forze”, e desiderava non intraprendere quelli che allora erano massacranti viaggi, ma la Voce la incoraggiò a recarsi a Gerusalemme e di non preoccuparsi, perché la avrebbe sorretta nel viaggio. Sono queste dei “Dieci volti del mistero” pagine in cui la Storia con la maiuscola, dei principati, degli imperi e della Chiesa si fonde con le singole storie di donne di tutti i ceti sociali, unite dal desiderio di salvare gli altri attraverso il sacrificio di sé su questa terra.

Saverio Gaeta, “Dieci volti del mistero. Donne che parlarono con Dio”, San Paolo, 307 pagine, 18 euro

 

Come riportare Peter Pan non solo e non tanto in chiesa, ma alla preghiera e alla comunità? Cerca di dare una risposta a questo drammatico (visto lo spopolamento dei luoghi sacri) quesito Armando Matteo, docente all’Urbaniana di Roma e sottosegretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede, con il suo “Convertire Peter Pan”. Il senso del libro è ben concentrato nel sottotitolo: Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza, perché l’autore non si nasconde, e non la nasconde al lettore, la difficoltà di ricondurre al Senso un universo di quaranta-cinquantenni -e non solo- che con l’avvento di un consumo sempre più esasperato pompano muscoli in palestra, programmano vacanze esotiche, si dedicano al benessere 24 ore su 24. Dimenticando la vecchia, saggia e realista massima “se Atene piange, Sparta non ride”, nel senso che questo benessere apparentemente progressivo e perenne potrebbe finire. Non è tanto per l’avviso che poco gentilmente ci sta inviando l’universo delle pandemie (di cui il Covid non è che una rilevante punta, David Quammen ci aveva messo in guardia con il suo documentato “Spillover”), quanto per la constatazione che i mercati vanno incontro a drammatici periodi di crisi che gettano sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Se lo “spartano” giovane-maturo-e anche oltre, se la gode nei centri di benessere, l’”ateniese” che non ha di che sfamare i figli dovrebbe rappresentare e un monito e un momento di sano -e opportuno- ripensamento. Matteo attribuisce al complesso di Peter Pan una buona parte della desertificazione della Chiesa, intesa non solo come luogo di culto, e questo è vero solo in parte. Anche perché, quelle stesse ideologie scaturite da marxismo deterministico, darwinismo a senso unico, superomismo (che l’autore tiene giustamente da conto) hanno anch’esse, ma solo in parte, contribuito a formare quello che è lo spirito del tempo post-bellico. La memoria della fame o della povertà passata ha spinto i nonni a tentare di far oltrepassare quegli scogli a figli e nipoti. Non potevano tener conto delle conseguenze della lenta ascesa al benessere. L’autore propone delle possibili cure a questa crisi di valori che è anche e soprattutto crisi di fede, e non si può che essere d’accordo, soprattutto quando si parla di un diverso modo di fare comunità e di rapportarsi con chi potrebbe di nuovo timidamente far ritorno, o entrare per la prima volta, nelle solitarie chiese del nuovo millennio.

Armando Matteo, “Convertire Peter Pan”, Ancora, 124 pagine, 13 euro.