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I curdi, un popolo sacrificato sull’altare degli interessi altrui

foto Ansa/Sir
12 Lug 2022

di Giuseppe Casale *

Nell’estate del 1480 la flotta turca sbarcò nei pressi di Otranto. Data la resistenza della città, gli invasori scatenarono saccheggi e massacri, pretendendo infine dai circa 800 uomini sopravvissuti l’abiura alla fede cristiana – il rifiuto determinò l’eccidio dei Martiri otrantini, canonizzati nel 2013. Pare che a quei fatti risalga l’espressione “Mamma li turchi!”, a significare il terrore per una ferocia implacabile.

Dalla recente sottoscrizione del memorandum di Madrid, invece, forse si dovrà dire “Mamma li curdi!”, vista la minaccia che questi sembrerebbero costituire. Ritirando il veto all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, la Turchia da queste ha ottenuto: la disponibilità a estradare gli attivisti curdi classificati da Ankara come terroristi; la sospensione dei sostegni alle organizzazioni autonomistiche e delle forniture militari in Siria alle Ypg e alle Ypj (Unità di Protezione popolare e di Protezione delle Donne, celebrate per l’eroica liberazione di Kobane dall’assedio Isis). Infine la revoca dell’embargo sulle armi ad Ankara, istituito nel 2019 dopo bombardamenti turchi nel Rojava, che i curdi siriani amministrano de facto secondo la formula del “confederalismo democratico”, ispirata al pluralismo etnico-religioso sostenuto anche dal Pkk dopo l’abbandono del leninismo e l’adesione al socialismo libertario.

D’altronde, la qualificazione terroristica del Partito dei Lavoratori curdi (cui Ankara riconduce tutte le sigle indipendentistiche) resta controversa e ineffettiva nella stessa Ue, stanti le pronunce delle corti. Ma sappiamo che la taccia di terrorismo in ambiti irredentistici spesso è ambigua: in base agli schieramenti nelle vertenze “risorgimentali” di ogni epoca, chi è terrorista secondo taluni, secondo talaltri lotta per la liberazione da occupanti e dominatori.

Stoccolma e Helsinki si sono precipitate ad assicurare che non estraderanno i propri cittadini: condizionalità irrilevante per Erdogan, in confronto agli effetti della sua mossa. In vista delle prossime elezioni, essa intercetta un consenso trasversale, senza aggiungere molto alla sicurezza interna, visto che non è bastata la carcerazione di parlamentari e sindaci dell’unico partito curdo legale a riattivare l’insurrezionalismo. Risvolti di peso si hanno invece sul versante estero: la Turchia estende l’isolamento curdo dall’Occidente, registrando un possibile semaforo verde a nuove operazioni militari a sostegno degli islamisti anti-Assad. Ciò significa avere mano libera contro i curdi del Rojava che, trascurati dagli Usa, mediante il canale russo guardano a un eventuale asse con Damasco e Teheran, rivale di Ankara per l’egemonia regionale. Inoltre, il memorandum può fare da breccia, come suggeriscono i discorsi di Erdogan intesi a rimarcare i crediti turchi rispetto all’Occidente: il ruolo nella Guerra fredda (unico membro Nato confinante con l’Urss), le rinunce sulle isole egee, il contenimento russo in Libia e Medioriente, i cimenti negoziali tra Mosca e Kiev. Sul piatto ci sono infatti gli F-16 Usa, il programma per gli F-35, le acque contese alla Grecia, l’annessione di Cipro Nord.

Sì che i curdi – la nazione senza Stato più numerosa al mondo – sono adusi a essere sacrificati sull’altare degli interessi altrui. Senza risalire all’antichità, basti una sommaria rassegna nel ’900: le ipotesi sul Kurdistan indipendente delineate dal Trattato di Sévres nel 1920 vennero cancellate dall’esigenza di scendere a patti con la Rivoluzione kemalista preservando i mandati mediorientali di Francia e Gran Bretagna sorti dallo smembramento dell’Impero ottomano. Nel 1946 durò appena 11 mesi la Repubblica popolare con capitale Mahabad in territorio iraniano, dapprima voluta dall’Urss e dissolta da Teheran nel disinteresse di Mosca. Il secondo dopoguerra aprì alle repressioni e ai conculcamenti identitari perpetrati dagli Stati “ospitanti”, che si aggiunsero alla turchificazione già in atto con il violento assimilazionismo di Kemal. Nel 1972 gli Usa appoggiarono l’opposizione curda al regime baathista in Iraq, ma nel 1975 Nixon la scaricò raccordandosi con Baghdad. Nel 1988 la repressione di Saddam Hussein – rifornito dagli Usa nella guerra con l’Iran – toccò l’apice, punendo con armi chimiche un’etnia accusata di connivenze khomeyniste. Nella Prima Guerra del Golfo, Washington armò i peshmerga contro il Raìs, proteggendoli con una no-fly zone oltre il 36° parallelo. Ma già nel 1997 gli Usa iscrissero il Pkk nella lista delle sigle terroristiche, mentre al 2003 risale la revoca dell’interdizione aerea, che espose il Kurdistan iracheno ai raid turchi. Nel 2019 la Casa Bianca sciolse la coalizione anti-Isis in Siria, lasciando le milizie curde in prima linea contro islamisti e turchi alleati.

Madrid è l’ultimo atto, che vede l’Occidente solidale con le sovranità calpestate dall’imperialismo neo-zarista e non con le autodeterminazioni soffocate da quello neo-ottomano. Per giunta, la sacrosanta sollecitudine europea per i migranti di guerra provenienti da est stride con i compensi versati da Bruxelles al governo turco per respingere i flussi di profughi mediorientali. Per carità, non si parli di razzismo. Si tratta di mero calcolo, pur coperto da spesse cortine fumogene. Né è un caso singolare. Esempi affini si censiscono a iosa, nel moto pendolare tra condanne e riabilitazioni, affratellamenti e tradimenti utili. Pare che nel 1939 Roosevelt avesse detto del brutale Somoza, dittatore del Nicaragua: “Sarà pure una canaglia, ma è la nostra canaglia”. La banalità del male incrocia facilmente la selettività del bene, complici le coscienze rassicurate dalle narrazioni sedative.

 

*Pontificia università lateranense

 

Nella foto, un momento della manifestazione organizzata da un gruppo di curdi residenti in Italia

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