Emergenze sociali

Fuga dei cervelli e immigrazione: binari paralleli del disagio mentre le nostre città si svuotano

09 Nov 2022

di Silvano Trevisani

Dal 2013 ad oggi la città di Taranto ha perso oltre 15.000 abitanti, quasi l’8% della sua popolazione, passando dai 203.257 di quel primo anno post-censimento, agli attuali 188.147. L’intera provincia in soli due anni di abitanti ne ha persi oltre 21.000. L’andamento appare, attualmente, incontrovertibile: il Sud si svuota molto più di quanto si svuoti il resto del Paese, che pure decresce, e questo comporta un generale impoverimento. Denatalità ed emigrazione si incrociano per far sì che la popolazione si contragga continuamente e di tale contrazione sono segnale evidente e indiscutibile le miriadi di annunci di vendita o fitto che campeggiano su tutti gli stabili della città e della provincia. Che cercano acquirenti e affittuari che, semplicemente… non ci sono.

Questi dati ci consentono di entrare facilmente nel capitolo delle emigrazioni, che il rapporto Migrantes ha descritto con precisione, chiarendo che al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’Aire, cioè l’anagrafe degli italiani all’estero, erano infatti 5.8 milioni, quasi un decimo degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia. Ma ci sono moltissimi che sfuggono al censimento non essendo, per le loro specifiche situazioni, obbligati a iscriversi all’Aire. E non sono pochi

L’identikit di chi è espatriato l’anno scorso disegnato dalla Migrantes è preciso: prevalentemente maschio (il 54,7% del totale) e sotto i 35 anni (il 41,6%). Oltre frontiera viene spinto, soprattutto dalla ricerca di un lavoro stabile e redditizio, ma anche dalla speranza di una vita migliore, per la stagnazione italiana e per l’immobilità dell’ascensore sociale, un numero elevato di giovani che in patria non trovano un avvenire adeguato. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione “espatrio”. Una emigrazione in crescita. Spesso chi parte non ritorna più perché le discriminazioni anagrafiche, territoriali e di genere verso i nati dagli anni 80 in su sono diventate insormontabili.

Il 47% degli emigrati partono dal Mezzogiorno, il 37% dal Nord Italia e circa il 16% dal Centro. Il 78,6% di chi ha lasciato l’Italia per espatrio nel corso del 2021 è andato in Europa, il 14,7% in America, più dettagliatamente latina (61,4%), e il restante 6,7% si è diviso tra continente asiatico, Africa e Oceania. Oltre la metà, quasi 3,2 milioni vive in Europa, il 40% (oltre 2,3 milioni) in America, centro-meridionale soprattutto (più di 1,8 milioni). Le comunità italiane all’estero più numerose sono, ad oggi, quella argentina (903mila italiani), tedesca (813.650), la svizzera (648.320), la brasiliana (527.900) e la francese (457.138).

Utile ricordare che gli immigrati in Italia, nello spesso periodo, sono 5,2 milioni, cioè meno degli emigrati, e che, pur necessari alla vita del Paese per il loro lavoro indispensabile (nelle industrie del nord, negli allevamenti del centro-nord, nelle campagne di tutto il Paese, nell’assistenza degli anziani nel ruolo di badanti), non importano la stessa professionalità. Se, infatti, molti sono rifugiati che hanno spesso un elevato titolo di studio, la gran parte è fatta di poveri, di contadini cui è stata sottratta la terra dall multinazionali o dalla desertificazione, e che non hanno istruzione.

Il saldo intellettuale è, quindi, molto negativo e, nonostante ciò, il lavoro professionale resta un miraggio per molti giovani laureati che si sono formati al Sud e che ci restano ancora “sperando” di trovare qualcosa. E in questo caso gli immigrati non hanno proprio nessun lavoro da rubare agli italiani!

Basterebbero questi dati per spiegare a chi governa il Paese che se il problema dell’immigrazione e quello della fuga dei cervelli si incrociano non sono comunque interconnessi. Non è vero, quindi, che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, ma anzi sono a noi indispensabili, e che i giovani non vogliono lavorare (e magari preferiscono il reddito di cittadinanza). Occorrerebbe una seria riflessione di tutta la classe politica che finora non ha saputo dare risposte al Paese che non ha bisogno di contrapposizione ideologiche, che guarda caso vanno sempre a danneggiare i più poveri, ma di scelte che puntino alla distribuzione della ricchezza, che pure in Italia è ingente, e che qualifichino la formazione e il lavoro che, negli ultimi trent’anni, sono stati fortemente penalizzati.

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