Editoriale

Ma se il coraggio di deludere …

Foto Archivio Agensir
05 Dic 2022

di Emanuele Carrieri

La saggezza popolare dice che una bugia tira l’altra. Le bugie come le ciliegie. Una tira l’altra e detta la prima non si smette più. Quando si mente si è quasi invogliati dal perseverare per rendere il tutto più credibile e, se non si confessa subito, si deve poi andare avanti, con invenzioni sempre più nuove, sempre più grandi. Purtroppo, c’è un momento in cui arriva il conto. Per Riccardo si stava concretizzando in quello del ristorante che i suoi genitori avevano prenotato al fine di festeggiare la laurea e poi in quello del viaggio premio nel Paese del Sol Levante. Ma non c’era proprio nessuna tesi da discutere, così ha scelto l’unica strada senza ritorno. Lasciando il padre e la madre con i sensi di colpa di chi non ha visto, di chi non ha capito, non si è reso conto. Riccardo aveva 26 anni e – dice adesso chi lo conosceva – era cambiato con il lockdown: aveva perso gli amici e si era chiuso in sé stesso. Tutti i massimi esperti lo dicono da tempo, le restrizioni legate al Covid avranno effetti negativi innanzitutto sui più giovani: l’assenza di socialità, la mancanza di contatto fisico, le mascherine a nascondere con il volto l’espressione, incideranno sulla loro crescita, dunque sulla loro vita. Spetta agli adulti prestare grande attenzione ai primi sintomi di disagio. Certo, è molto difficile per i genitori, che devono in qualsiasi modo spronare i figli, come hanno fatto il padre e la madre di Riccardo. Forse lo avranno pure rimproverato perché non superava un esame, sempre quello, sempre lo stesso, finché un giorno era tornato a casa: “Ce l’ho fatta”. E forse è in quel momento che è iniziato il tutto. Non è la prima volta che avviene, altri giovani hanno finto di essere arrivati al traguardo, altri hanno inscenato dei rapimenti o degli allontanamenti volontari, altri, prima di Riccardo, hanno preferito la morte alla vergogna, hanno scelto la fine di tutto alla verità. Si accavallano le domande. Ma poi, è davvero vergogna? È davvero incapacità di assumersi le proprie responsabilità? E cosa succede nella testa di un giovane che non riesce a presentarsi così com’è, a farsi vedere com’è? Forse noi adulti ci dobbiamo chiedere se quello che ci aspettiamo, o peggio, pretendiamo dai giovani è in sintonia con il loro carattere, con le loro capacità, la loro sensibilità, le loro aspettative. È giusto indirizzarli e forse anche riprenderli, ma è necessario stare a sentirli affinché non si limitino a compiacere gli adulti, verrebbe da dire le aspirazioni degli adulti. Niente a che fare con il caso di Riccardo, che ha detto no all’azienda di informatica di famiglia per lo studio delle scienze infermieristiche. Dunque, scelta autonoma, eppure è finita come è finita. Il disagio dei giovani è una realtà con cui è indispensabile fare i conti anche in una società che vede ragazzini viziati impegnati per lunghe ore sui social e genitori che si fanno in quattro, otto, sedici, pur di accontentarli. Però dietro quei silenzi, quei musi lunghi, quegli sguardi inespressivi, al di là di quelle porte chiuse, di quei pomeriggi chiusi nella camera, di quei comportamenti aggressivi in casa o in strada o a scuola, può esserci una situazione di difficoltà emotiva che non può e non deve essere sottovalutata. Mai e per nessun motivo. La cronaca ci pone davanti a tante situazioni drammatiche, l’ultima è quella della dodicenne di Latina che si è lanciata dalla finestra durante l’ora di ricreazione, in classe, dopo aver detto a una compagna: “Apro, fa caldo”. Ha scritto una lettera, e l’ha lasciata sul banco, senza indicare un destinatario, dunque per tutti. E ai soccorritori che l’hanno salvata ha detto una frase impressionante: “La vita fa schifo”. Che cosa ha vissuto quella studentessa poco più che bambina per arrivare a tanto? I genitori sono separati, vive con i nonni, senz’altro: ma quanti ragazzini sono nella stessa condizione? Però, forse, a pensarci bene bisognerebbe ribaltare il ragionamento e soffermarsi sui molti ragazzi che vivono situazioni familiari analoghe: chissà quali pensieri abitano nelle loro menti. Siamo tutti responsabili – la famiglia, la scuola, le agenzie di formazione, le istituzioni – e anche colpevoli perché non stiamo ad ascoltare, non abbastanza. Si può fare, perché è possibile farlo. C’è un esempio di grande valore: Bebe Vio, la campionessa paralimpica di scherma, ha raccontato più volte il ruolo del padre e della madre. Che davanti alla sua disperazione per l’amputazione delle gambe e delle braccia, le avevano detto: “La vita è di una bellezza pazzesca”. È necessario dirlo ai ragazzi, anche se studiano poco, anche se non sono perfetti, anche se di tanto in tanto si perdono, perché proprio allora stanno chiedendo aiuto. A ritrovarsi.

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