Editoriale

Un armistizio come quello di Panmunjeom?

Foto tratta dal sito https://it.wikipedia.org/
12 Dic 2022

di Emanuele Carrieri

Qual è la puntata in gioco nell’aggressione messa in moto da Putin, da lui contrabbandata per una operazione militare speciale, all’alba del 24 febbraio passato? La risposta è, prima di tutto, l’affermazione di sé stesso, e, poi, la conquista, il trionfo, o meglio, la vittoria. Certo, si tratta di un vocabolo che può essere declinato in parecchi modi e, fra essi, c’è la constatazione che l’Ucraina, finora, ha vinto tutte le battaglie terrestri ingaggiate con i russi, fuorché quella di Mariupol, e che ha provocato gravi perdite alla flotta e all’aviazione avversaria. Questo è accaduto malgrado che l’assistenza militare americana e britannica siano state controllate in maniera da limitare le capacità dell’esercito ucraino. Per esempio, i lanciarazzi progettati alla fine degli anni novanta, capaci di scaraventare contemporaneamente sei razzi a guida elettronica su obiettivi differenti, sono stati forniti in versione depotenziata, cioè con una gittata ridotta per impedire l’attacco al territorio russo. In ogni caso, lo strapotere del sistema militare russo è stato ridimensionato, ma non è certo terminato. La vittoria ucraina è una vittoria allo stato delle cose e non comprende la riconquista della Crimea e delle due repubbliche, di Doneck e di Lugansk. Né la può comprendere in avvenire, considerato che, alla vittoria ucraina, ha corrisposto una sconfitta russa che, d’altra parte, manifesta la debolezza della sopravvivenza del regime di Putin. Se la Crimea e le due repubbliche degli oblast del Donbass passassero di mano tornando a Kiev, Putin, non potendo rassegnarsi di essere sconfitto più di quanto non lo sia già oggi, potrebbe anche mettere in campo l’arsenale atomico. “La minaccia di una guerra nucleare sta aumentando” ha tuonato nei giorni scorsi. Bisogna considerare, oltre al resto, che il fronte interno russo non è mai stato compatto e adesso lo è meno che mai. Dmitrij Peskov, portavoce personale del presidente, è stato costretto a esortare i russi a ignorare i “messaggi provocatori” pubblicati sui social in merito a una seconda ondata di mobilitazione. La dichiarazione di Peskov è probabilmente volta a screditare la crescente influenza dell’opposizione russa – quella che vorrebbe già da mesi il ricorso all’arsenale atomico e la liquidazione definitiva dell’Ucraina – e dei social a favore della guerra, che hanno costantemente riportato indicatori dell’intenzione del Cremlino di riprendere la mobilitazione nel 2023. Putin sta, inoltre, aumentando le misure per impedire agli uomini mobilitati e alle loro famiglie di lamentarsi dei problemi di mobilitazione. Per esempio, ha firmato una legge che vieta tutte le manifestazioni negli edifici governativi, nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nei porti, nelle stazioni ferroviarie, nelle chiese e negli aeroporti, molto probabilmente per sopprimere le rivolte e le proteste fra gli uomini mobilitati e le loro famiglie. Sono tutti sintomi di debolezza. Anche se i combattimenti continuano anche se in modo circoscritto, anche se le attrezzature ucraine sono nettamente migliori di quelle russe – i soldati di Kiev sono in tenuta artica, quelli di Mosca in una insufficiente uniforme invernale –, la stagione del gelo e quella del disgelo sono le meno idonee alle grandi operazioni belliche nelle grandi pianure dell’Est. E allora è questo, quindi, il momento in cui le diplomazie, cinese e americana, prima e più di tutte le altre, possono lavorare dietro le quinte per ottenere un cessate il fuoco, primo inevitabile passo per un raffreddamento del conflitto. Un accordo come questo implica che le truppe si fermino nelle linee in cui sono al momento, come accadde fra la Corea del Nord e quella del Sud quando nel luglio ’53 fu firmato l’armistizio. Non sono in molti a saperlo: non essendo mai stato firmato un trattato di pace definitivo, teoricamente il conflitto è tuttora in corso. Quindi, per l’Ucraina sarebbe una vittoria molto più che ragguardevole nell’avere conservato la propria sovranità sul territorio rimastole dopo l’invasione del 2014 e, per la Russia, invece, sarebbe grasso che cola, un dono immeritato, il mantenimento non definitivo e sorvegliato da osservatori esterni e neutrali del territorio abusivamente occupato allora. Se, continuando i combattimenti, le forze armate dell’Ucraina determinassero la sconfitta del regime di Putin, la reazione dello Zar di tutte le Russie sarebbe quella di una bestia colpita dal rabies lyssavirus (il virus della rabbia!), soprattutto per il rischio di essere esautorato nel suo ruolo al Cremlino da forze e da lobby di potere più determinati alla distruzione dell’Ucraina e all’immediato uso delle armi nucleari. Ora tocca al presidente degli Stati Uniti Joe Biden e al presidente della Cina Xi Jinping indurre le due parti ad accettare subito un cessate il fuoco e poi un armistizio. Non la pace, ma una pace, come l’armistizio di Panmunjeom, fra le due Coree.

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