Guerra in Ucraina

Il passato che ritorna: la Polonia in armi nel nuovo assetto europeo

La volontà di regolare i conti con Mosca si unisce al desiderio di riscattare aspirazioni geopolitiche che vengono dal passato

Periferia di Mykolaiv - foto Caritas Spes
22 Mar 2023

di Giuseppe Casale *

L’ambasciatore polacco in Francia ha dichiarato che se l’Ucraina non riuscirà a spuntarla contro la Russia per il suo Paese sarà inevitabile entrare in guerra. Più che una minaccia, una conferma della postura avanguardista assunta da Varsavia nel conflitto. L’esternazione giunge quando Varsavia, con Bratislava, rompe gli indugi occidentali e dispone l’invio dei primi caccia: Mig-29 di produzione sovietica già noti ai piloti ucraini. La mossa è plurivalente: aumenta i meriti atlantici della Polonia, aggira l’esigenza di un lungo addestramento e permette di svuotare il vecchio arsenale, conformemente a un esorbitante piano di riarmo che porterà Varsavia a superare il 4% del pil in spese militari, specialmente in commesse siglate con Washington e Seul. Con simile primato in Europa, la Polonia mira ad affrancarsi dall’industria bellica tedesca, investendo inoltre in acquisizioni tecnologiche volte a produrre sistemi d’arma omologhi a quelli Usa, imitati anche con l’introduzione di una guardia nazionale formata da volontari e riservisti di pronta mobilitazione.
Il militarismo polacco non si giustifica propriamente con una disinteressata disposizione alla causa di Kiev: in Polonia, nazione di profonda memoria storica, si conserva il ricordo della guerra per la Galizia e sopravvivono le recriminazioni per la pulizia etnica perpetrata sulla minoranza polacca dalle bande dell’Upa del collaborazionista Bandera, denunciandone la riabilitazione a eroe nazionale. Più che il filoucrainismo pesa l’antirussismo di vecchia data, che oggi spinge Varsavia a parlare di smembramento della Federazione russa. D’altronde, né revanchismo né il timore rispetto all’antico pericolo russo bastano da soli a spiegare l’atteggiamento di un Paese comunque assicurato dall’ombrello Nato di dissuasione nucleare. La russofobia si fonde con l’occasione per la Polonia di realizzare antichi disegni, intercettando la cesura delle relazioni eurorusse usando la patente di alfiere oltranzista dell’euroatlantismo e lo sponsor statunitense, per sostituirsi alla leadership continentale franco-tedesca.
La volontà di regolare i conti con Mosca si unisce al desiderio di riscattare aspirazioni geopolitiche che vengono dal passato. La storia ci soccorre di nuovo nella comprensione del presente, riaffiorando nei comunicati del governo polacco, che rievocano espressamente la Confederazione polacco-lituana a motivo del sostegno all’Ucraina. Sorta dall’unione tra il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania, dal 1569 al 1795, estesa dal Baltico al Mar Nero, essa diede forma a uno dei più vasti Stati europei. La sua fine, dovuta alla spartizione tra russi, prussiani e asburgici, segnò la scomparsa di Polonia e Lituania dalle carte politiche. L’idea di una ricostituzione, ispirata dal principe Czartoryski, animò la mitografia del panslavismo polacco del XIX secolo, per poi emergere nuovamente nel 1919, quando Pilsudski, leader della neoindipendente Polonia, iniziò a perorare il progetto Prometeo correlato all’agenda Intemarium: da un lato provocare la disintegrazione dell’Impero sovietico (considerato comunque russo), dall’altro creare una confederazione con perno polacco, che nella versione più ampia avrebbe compreso Ucraina, Cecoslovacchia, Ungheria, Scandinavia, Paesi baltici, Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Grecia: dal Mar Nero all’Adriatico,  dal Baltico all’Egeo. Il disegno, facilmente rigettato dalle potenze europee, fallì anche per la polonizzazione temuta dai Paesi candidati e per il contrasto interno mosso da chi paventava l’inquinamento dell’autoctonia polacca. Rilanciata dal ministro Neck, pupillo di Pilsudski, e ancora dal governo in esilio di Sikorski durante la Seconda Guerra mondiale, il piano non ha mai cessato di ispirare i sensi rivalsa del nazionalismo polacco.
Ai nostri giorni l’eredità viene raccolta dalla Three Seas Initiative (3Si), detta anche Trimarium, forum di 12 Stati (Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) coprente circa 1/3 del territorio e un 1/7 del pil Ue, lanciata nel 2015 dal presidente polacco Duda. Costituitasi come binario di integrazione infraeuropea, comprende un nutrito dossier di progetti di cooperazione nei campi dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, dotata di un apposito fondo di investimenti cofinanziato dagli Usa. Eppure l’ipotesi di affiancare al Trimarium un partenariato militare assimilabile a una “piccola Nato” centrorientale individua un’ottica egemonica locale che integra il riarmo polacco, oggi ostacolata dell’influenza russa nei Balcani e dalla presenza militare di Mosca nel Mar Nero nel Baltico. Eppure la guerra in Ucraina sta già producendo effetti, ammorbidendo le resistenze al 3Si di quanti paventano risvolti divisivi in seno all’Ue e vincendo le timidezze dei partner che più temono la subalternità a Varsavia. Il summit di Riga di giugno scorso ha procurato l’inclusione di Kiev nel 3Si, preparata dall’invito rivolto a maggio da Duda al parlamento ucraino, suggellando le interlocuzioni avviate da Zelensky nel 2019 all’indomani della sua elezione. Il passato torna a farsi presente, aggiungendo un ennesimo fattore sfidante per il futuro europeo, già così radicalmente rivoluzionato.

  • Pontificia università lateranense

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