L'argomento

Il fotoreporter iraniano Manoocher Deghati: il mio esilio in Valle d’Itria

04 Apr 2023

di Marina Luzzi

Beviamo il suo tè nero iraniano, che si fa portare da Parigi, servito in un’antica teiera in rame argentato. Così si entra nel suo mondo. Nel suo studio, attiguo al trullo in Valle d’Itria dove vive dal 2014. Lì c’è un appuntamento con la storia del mondo, dagli anni ’70, dalla rivoluzione iraniana e dalla successiva guerra tra Iran e Iraq, ad un decennio fa. Manoocher Deghati l’ha raccontata con la sua macchina fotografica per le più importanti agenzie stampa internazionali e le sue foto sono comparse su Time, Life, Newsweek, Paris Match, GEO e National Geographic Magazine. Inoltre, ha ricoperto posizioni dirigenziali e fotografato per le Nazioni Unite in quattro continenti. Nel 1984 ha vinto il World Press Photo. Nel 2002 ho fondato l’Istituto di fotogiornalismo AINA a Kabul, dando un’opportunità a chi voleva studiare giornalismo, comunicazione e fotografia, dopo anni di oscurantismo talebano. Per quattro anni ha diretto un team di fotografi per The Associated Press in Medio Oriente. Ora insegna e lavora come fotografo indipendente in Puglia.

Manoocher che ricordi dell’Iran della tua infanzia? Com’era il tuo Paese?

«L’Iran era un Paese incredibilmente ricco da tutti i punti di vista. La natura rigogliosa, due mari, il deserto e il Golfo Persico, il mar Carsico, montagne altissime.  E poi le persone. Un Paese grande, con tante regioni e vari popoli, tanti scienziati e poeti. Io per esempio vengo dall’Azerbaigian iraniano (nord-ovest del Paese, ndr), dove si parla turco ma la lingua nazionale è il persiano. Poi ci sono curdi, arabi. È una miscela di varie culture. Ora purtroppo è un periodo nerissimo. Un periodo che purtroppo va avanti da 43 anni. Io sono nato nel 1954, quando governava Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo scià di Persia (è stato in carica fino al 1979, ndr). Un “buon” dittatore. Stava portando l’Iran verso la modernità. Stava costruendo università, strade, ospedali. Se studiavi ti pagava il governo. Potevi viaggiare per il mondo senza visto. Si viveva bene. L’unica cosa che non si poteva fare era la politica. Il suo obiettivo era di far arrivare l’Iran a livello di vita dell’Europa ma al contempo la società era molto religiosa, con i mullah che avevano molto potere. Nel 1978 gli studenti, i giovani intellettuali, volevano la democrazia e scesero in strada per chiedere più libertà. La risposta del governo fu dura, sparavano sulla popolazione. I sacerdoti sciiti, con la loro rete sociale molto forte nelle moschee, hanno strumentalizzato a loro favore la rivoluzione e Khomeyni, che era leader di questo movimento sacerdotale e si trovava in esilio in Francia, nelle sue interviste diceva che l’Iran al suo ritorno sarebbe stato un Paese democratico, con donne finalmente libere, con tutti i partiti politici, anche comunisti. Così tutti si convinsero che fosse in buona fede. Quando invece è entrato in Iran, nel suo primo discorso pubblico, ha affermato tutto il contrario. Arrivato nel 1979 la prima cosa che ha fatto è stato imprigionare e fucilare tutti i pro regime dello scià».

E tu a quel tempo dove ti trovavi?

“Ero a Roma ma tornai in Iran per raccontare quello che accadeva. Devo fare una premessa. Io da bambino ero affascinato dalle immagini del cinema. Da adolescente c’era un cinema nell’università di Teheran che un giorno a settimana faceva vedere film di nicchia stranieri. E lì ho conosciuto il neorealismo italiano: Fellini, Visconti, Pasolini, Totò. Le storie del dopoguerra italiano erano così simili al mio Iran. Mi sono innamorato e appena finiti gli studi, sono partito zaino in spalla per studiare cinema in Italia. Ci ho messo dieci giorni per arrivare a Roma, di treno in treno, senza conoscere nessuno e senza sapere una parola di italiano. Nel 1975 mi sono iscritto ma con la rivoluzione nel 1978 sono tornato in Iran, cominciando a fare foto delle manifestazioni. Poi sono tornato a finire gli studi in Italia, e ancora in Iran per documentare quello che accadeva. Così, quasi senza volerlo, sono diventato foto giornalista, cominciando subito a lavorare per agenzie internazionali, prima con un’agenzia francese, poi con gli Stati Uniti e il Times magazine. Non c’erano tanti fotografi al tempo, era tutto diverso.  Nella prima settimana di lavoro, ero già con i big dell’informazione. Ero iraniano e della generazione che aveva fatto la rivoluzione, quindi avevo una conoscenza forte della cultura del Paese, tante relazioni, sapevo quello che stava accadendo e sarebbe accaduto, e quindi avevo un vantaggio rispetto a colleghi che venivano dall’estero. Vedendo quello che faceva il regime, ho cominciato a denunciarli, con foto delle fucilazioni per la strada o di bambini che venivano addestrati a fare la guerra al fronte. Mi sembrava l’unico modo per fare qualcosa per l’Iran. Queste foto, pubblicate all’estero, non facevano una buona pubblicità alla nazione e così ho cominciato ad avere problemi.

Che tipo di problemi?

«Venivo arrestato, interrogato, picchiato con il fucile in testa, mi hanno tolto il tesserino da giornalista e rotto le attrezzature. Questo dal 1979 al 1985, quando ho saputo che era in una black list e rischiavo la vita. Così, presa solo la macchina fotografica, prima che tornassero ad arrestarmi, stavolta probabilmente per l’ultima volta, sono andato via e sono arrivato a Parigi. Purtroppo ancora oggi se tornassi in Iran non credo che ne uscirei vivo perché continuo a denunciare».

Stai seguendo quello che accade in questi mesi?

«Come non farlo? I ragazzi del movimento della rivoluzione dei giovani iraniani sono incredibilmente coraggiosi e senza paura perché conoscono, grazie ad internet, tutto il mondo. Sanno con i social come vivono negli altri Paesi e loro invece hanno un regime dittatoriale feroce, che uccide una ragazza di 22 anni perché si vedevano ciocche dei suoi capelli dal copricapo. Negli ultimi sei mesi in Iran per la strada sono state uccise più di 500 persone e hanno arrestato 80mila persone. Ed essere arrestati lì vuol dire essere torturati».

Sei in contatto con qualcuno per sapere cosa sta accadendo in Iran?

«Io ho sempre mantenuto contatti con l’Iran, e con molti giovani fotografi a cui insegno online. Molti sono stati arrestati, o sono scappati. Ogni tanto comunichiamo e mi fanno sapere quello che accade».

E che ti raccontano?

«Cose orribili e poi sono sotto controllo, quindi non possono lavorare come si dovrebbe. Se vanno alle manifestazioni e non fanno le foto secondo quello che vuole il regime, vengono arrestati subito. Lavorano in clandestinità, per quello che possono. Arresti, torture, fucilazioni. È questo che arriva fin qui».

Come si può provare a risolvere la situazione?

«Risolvere significa cambiare il regime. È quello che vogliono quelli che protestano. Fin quando i fondamentalisti saranno al potere, continueremo così. Se cade questo regime non sarà libero solo l’Iran ma tutto il Medio Oriente, perché il regime iraniano sponsorizza tutti i gruppi terroristici dall’Africa, al Libano, dallo Yemen, all’Iraq, alla Siria. Purtroppo però l’Occidente non fa di tutto per far cadere il regime. Se stanno lì è perché i grandi poteri lo vogliono. Ora i fondamentalisti si sono avvicinati molto ai cinesi e russi. Il regime iraniano sta mandando armi alla Russia per aiutarla contro l’Ucraina. Insomma se cadono loro, è una grande cosa per tutto il mondo. Io voglio credere che questo accadrà».

Tu hai fatto una grande cosa in Afghanistan, quando nel 2001 venne liberata per la prima volta dai talebani. Hai aperto una scuola di giornalismo e fotogiornalismo, in un luogo dove per anni era stato proibito andare a scuola. Ci racconti come è andata?

«Io mi sento molto vicino all’Afghanistan. Un tempo era parte dell’Iran, abbiamo la stessa lingua, culture simili. Io sono andato per la prima volta a fotografare questo Paese nel 1979, quando i sovietici la occuparono e i mujahidin li combattevano. Ci sono poi tornato nel 2001, con la caduta dei talebani, che avevano preso il potere nel 1995, per mano degli americani. Dopo qualche giorno da quando sono stati cacciati i talebani, sono arrivato a Kabul, ho fatto un servizio per Geo magazine Germania e ho ritrovato mio fratello Reza, fotografo anche lui. Abbiamo trovato una situazione terribile: niente giornali, radio, tv, niente scuole. Non c’era niente. Niente davvero. Le Nazioni Unite intanto cominciavano a costruire strade e quello che serviva. Abbiamo pensato che dovevamo mettere a servizio la nostra esperienza e così abbiamo creato una ong, che abbiamo chiamato Aina, che in persiano significa specchio. Abbiamo affittato un posto e abbiamo creato sette dipartimenti di radio, stampa, tv ed io ero responsabile del corso di fotogiornalismo. All’inizio non c’erano soldi ma pian piano siamo cresciuti e molti colleghi dall’America, dalla Francia, venivano ad insegnare. Per due anni e mezzo sono stato lì, dormendo in quella struttura. Adesso purtroppo ci sono di nuovo i talebani ed è finito tutto».

Come hai fatto a trovare gli allievi adatti?

«Ho mandato un annuncio in radio, la prima radio indipendente riaperta, dicendo che cercavo studenti per una scuola di fotogiornalismo. Ho dato un giorno e un orario delle selezioni e avevo preparato degli stampati in cui chiedevo perché volessero imparare. Mi sono svegliato quel giorno alle 5 di mattina con un grande rumore. C’erano centinaia di persone fuori da quel cancello. Distribuiti i questionari, tra tutti ne ho scelti 30 e poi siamo arrivati a 15. Avevano tra i 12 e i 32 anni. Nessuno era fotografo, alcuni non avevano mai visto un settimanale. Non erano andati a scuola per sette anni. Dalle loro risposte ho capito la loro motivazione. Dei 15, un terzo erano donne. Divenne una scuola anche di geografia, inglese, informatica. Avevano bisogno di tutto. Non avevo soldi per fornire macchine digitali per imparare. Hanno iniziato con una “box camera”, per imparare le basi della fotografia, una macchina senza pellicola, che stampa sulla carta e lo sviluppo è al suo interno, senza camere oscure».

E questi allievi hanno fatto strada?

«Sì, tutti. Sono diventati uno più bravo dell’altro. Con i fondi ricevuti man mano che il progetto ha preso piede, ho comprato macchine fotografiche digitali e così sono diventati, aprendo un’agenzia fotografica chiamata Ainaphoto, i nuovi fotogiornalisti che raccontavano al mondo l’Afghanistan. Uno ha vinto il premio Pulitzer: si chiama Massoud Hossaini. Sono rimasto lì con loro per due anni e mezzo, finché non sono riusciti a camminare con le loro gambe. Aina, tra tutti i dipartimenti, ha formato nella sua prima generazione più di 1000 persone e tutti sono diventati giornalisti stampa o tv. Quasi tutti in Afghanistan erano stati formati così negli ultimi vent’anni. Poi il percorso è proseguito e altre due generazioni si sono formate attraverso il supporto di quelli della generazione precedente. Sono diventati bravissimi perché avevano sete di imparare, di conoscere, dopo anni di privazioni. Dei quindici originari, ora, con il ritorno dei talebani, sono scappati tutti tranne uno. Adesso c’è chi è in America, chi in Olanda, chi in Turchia, chi in Canada. Lavorano tutti con agenzie internazionali e alcuni insegnano nelle università, come Farzana Wahidy. Stavano così bene lì. Purtroppo il destino dell’Afghanistan è brutto. Come può l’Occidente negoziare con i mullah iraniani? Con gente che taglia le teste?».

Sei stato in tutto il mondo, vivendo per anni nei posti di cui raccontavi per immagini. Perché questa scelta?

«Se tu conosci un luogo, se ci vivi per anni, riesci a fare foto che parlano di più. Cambia il tuo modo di osservare».

Dal 2014 sei in Puglia. Perché hai scelto la Valle d’Itria per vivere con tua moglie e tua figlia?

«Posso dire che ho trovato finalmente una casa. Sono stato in giro per il mondo, cambiando posto ogni quattro anni. Quando ho conosciuto la Puglia, mi è rimasta nel cuore. Dopo aver fotografato tutta la primavera araba, nel 2014 ho sentito che avevo bisogno di cambiare vita. La mia agenzia mi ha proposto Parigi o Tokyo. Allora ho detto “no grazie”. E siamo venuti qui, dove avevo comprato un trullo. Siamo molto contenti della scelta. Ora faccio olio e vino, ho le galline. “Viviamo in Europa ma non troppo”- dice mia moglie Ursula».

 

 

 

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