Città

Mario Panico, docente ad Amsterdam “I monumenti non vanno imposti”

26 Set 2024

di Silvano Trevisani

A proposito del monumento alle vittime dell’inquinamento

“Non c’è niente di più invisibile di un monumento”. La frase del grande scrittore austriaco Robert Musil, l’autore de “L’uomo senza qualità”, ce la ricorda Mario Panico, che di monumenti, musei della memoria e politiche culturali si occupa professionalmente ed è un vero esperto. Mario insegna Studi sul patrimonio culturale, alla Facoltà di studi culturali dell’Università di Amsterdam, ma è originario di Taranto e fu, da studente prodigioso, nostro collaboratore negli anni del liceo e anche dell’università. I monumenti sono, quindi, al centro delle sue lezioni universitarie, così come i musei della memoria e certamente sarebbe la persona più adatta, ad esempio, a precisare la funzione che può avere il Mudit, il museo dei tarantini illustri.

Lo abbiamo intervistato in merito alla vicenda del monumento delle vittime dell’inquinamento, improvvidamente decisa da un’associazione che è riuscita a imporla, in qualche modo, al Comune di Taranto.

Perché Musil definisce “invisibile” un monumento, anche quando, magari, è un pugno nell’occhio?

Perché in genere i monumenti, che sono eredità di una visione molto antica della società, rispondono alle “spinte” del momento. Che in genere sono celebrative, memoriali ma anche autoassolutorie, e che proprio per questo finiscono presto per appartenere al passato, abituare lo sguardo, non interessare le nuove generazioni. Che infatti in genere ignorano il significato dei monumenti sparsi per le città, che non sentono come propri ed è come se non li vedessero neppure. Ciò non toglie che spesso i monumenti sono anche brutti da vedersi, diventano subito icone del passato e non migliorano l’arredo urbano. Anche quando ne diventano parte integrante per lunga persistenza, come il monumento al marinaio di Taranto. Ma non sembri un paradosso la frase di Musil se pensiamo all’ondata di distruzione di monumenti che percorre l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti. È la gente a buttare giù quelli che danno una visione superata o sbagliata del passato. Non è accaduto così anche nell’Unione Sovietica dopo l’89 e in Italia alla caduta del fascismo?

Ma perché si costruiscono i monumenti?

In genere, in ossequio a una vecchia concezione, servono a ricordare un episodio drammatico, a elaborare un lutto, a emozionare anche con intento funebre, a consolare momentaneamente. Essi servono anche a consolidare un’identità nazionale e un orgoglio comunitario e per questo sono sempre stati edificati massicciamente, soprattutto con opere realistiche, dai regimi totalitari. La letteratura e gli studi recenti ci dimostrano che, alla fine, più che consolidare il ricordo alimentano la dimenticanza.

Ma possono avere ancora un senso?

Possono averlo se offrono una proiezione futura, se sono condivisibili e “vivibili”, se aprono alla speranza e chiudono alla disperazione. In tutti i casi, proprio le opere didascaliche, quelle che vorrebbero spiegare attraverso scene esplicite ed eloquenti, sono quelle da evitare. Anche nel caso delle vittime dell’inquinamento, c’è bisogno di ricordare ai tarantini l’incombere della morte, con evidente intento funerario, o piuttosto indicare una via d’uscita? Guardare alla vita o trasformare un segmento di città in evocazione cimiteriale? I ragazzi e le future generazioni devono trovare nel luogo monumentale un segno di speranza proteso al futuro. Ma anche in questo caso, è indispensabile che il monumento sia il prodotto di una città, di una elaborazione condivisa e affidata alla consulenza di architetti, urbanisti, critici, storici.

E del bozzetto del monumento presentato a Taranto che ne pensi?

Per quanto mi riguarda, non lo condivido. È una visione un po’ “ante litteram”, e la sua didascalicità lo trasforma in una commemorazione funebre. È più un “memento” che un “monito”. Mi sembra autoassolutorio oltre che ingombrante ed esteticamente poco condivisibile.

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