Dove sono gli altri?
Una domanda ai contabili degli sbarchi di immigrati

Tutto parte da quella interminabile gara di numeri e percentuali fatta sulla pelle di persone che lasciano i loro Paesi per motivi che non dovrebbero aver bisogno di ulteriori spiegazioni. Lo scorso anno sulle coste italiane ne sono sbarcate di meno rispetto all’anno precedente, dicono alcuni. E sempre con dati alla mano altri contestano e ribattono che non è così.
Il duello tra le due parti si riaccende con le misure nazionali ed europee più restrittive per immigrati e richiedenti asilo e arriva al centro di raccolta per l’espatrio costruito dal governo italiano in Albania con l’obiettivo della deterrenza.
Non sembra preoccupare il destino di coloro che sfuggendo ai contabili degli sbarchi camminano sulla sabbia del deserto, lungo la tratta balcanica e su altri percorsi dove si muore e si rischia di morire, oppure sono rinchiusi nei campi della violazione dei diritti umani in Libia e in altri Paesi nordafricani.
D’altra parte l’accoglienza, sempre con numeri e percentuali, viene saldata alla carenza di forze lavoro nazionali nell’industria, in agricoltura e nei servizi come se questa mano d’opera straniera non fosse fatta di persone, di famiglie, di relazioni.
Non si accetta o non si vuole accettare che il più grande segno dell’ingiustizia sociale in questo mondo e in questo tempo sono le migrazioni forzate: nel 2024 oltre 122 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro famiglie e le loro comunità.
Eppure, sono molte nel nostro Paese le iniziative che rifiutano questa strada. Sono iniziative che vengono soprattutto “dal basso”, sono manifestazioni di solidarietà nella legalità ma sono anche percorsi di coscienza critica e di cittadinanza attiva. Dicono che un’altra strada è possibile rispetto a quella dettata dalla paura è possibile. Sono storie di resistenza all’egoismo e di costruzione di relazioni umane senza confini. L’elenco di queste presenze attive è lungo e comprende realtà cattoliche e non cattoliche.
Arturo Sosa superiore generale della Compagnia di Gesù in un’intervista su Aggiornamenti sociali di aprile 2025 afferma che grazie a queste esperienze diffuse sul territorio “la speranza è già presente”.
“La speranza – aggiunge il gesuita – mostra come un altro mondo, un altro modo di relazionarsi tra noi sia possibile. Siamo chiamati a sentire che la speranza non è relegata a un futuro lontano, ma è qualcosa di già presente. Se non cominciamo noi stessi a vivere il cambiamento che desideriamo. Quel cambiamento non avverrà mai: il mondo cambierà solo se cambiamo insieme se viviamo quello che proclamiamo”.
Questo vuol dire che la speranza non è solo generativa di buone pratiche ma è essa stessa una forza critica nei confronti di una politica che derubrica l’accoglienza e l’inclusione a buonismo e le definisce inefficaci. Sono cittadini e cittadine pensanti e operanti a dire ai contabili degli sbarchi che occorre uno sguardo diverso da quello avuto fino a oggi per affrontare problemi complessi, uno sguardo di persone che si sono liberate dalle ideologie e dalle follie.
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