Cinema

Robert De Niro e l’allucinazione americana

Il festival di Cannes conferisce al grande attore la Palma d’Onore. Celebrando l’icona vivente di un’America spezzata tra solitudine, violenza e desiderio di redenzione

ph Ansa-Sir
15 Mag 2025

di Gianluca Arnone

Nell’anno che precede i cinquant’anni della Palma d’Oro a Taxi Driver e il Festival di Cannes conferisce a Robert De Niro la Palma d’onore, il gesto di omaggiare l’attore non è soltanto un tributo artistico: è un riconoscimento politico, filosofico, quasi liturgico. È come se il cinema mondiale volesse rendere testimonianza non solo a una carriera, ma a una figura che ha incarnato, come nessun altro, l’allucinazione e il trauma dell’America contemporanea.

Robert De Niro non è un interprete che “recita” l’America: egli è l’America nella sua forma febbrile, paranoica, divisa. Il suo volto — capace di mutare da maschera inespressiva a cratere emotivo — è lo specchio infedele di un paese che, da Nixon in poi, ha visto la propria immagine sfaldarsi. In Taxi Driver, diretto da Martin Scorsese e scritto da Paul Schrader nel 1976, De Niro crea Travis Bickle: un reduce che non ha più guerra da combattere se non quella dentro di sé. Ma Travis è anche il prodotto di una nazione che ha abbandonato la sua innocenza mitica, precipitando nell’incubo urbano, nella pornografia della violenza, nell’ossessione purificatrice.

Non è un caso che Travis parli come un profeta armato e confuso: “Someday a real rain will come and wash all the scum off the streets.” Una pioggia apocalittica, un lavacro terminale, un’estasi armata. È la politica come delirio, la democrazia che genera il suo doppio mostruoso. In Travis, De Niro scolpisce il corpo dolente dell’America post-Vietnam, post-Watergate, post-speranza: un corpo che sanguina dal suo interno, incapace di distinguere il nemico dall’alleato, l’amore dalla possessione.

Ma il segno di De Niro va oltre Taxi Driver. In film come The Deer Hunter (1978) o Raging Bull (1980), egli dà forma ad altre varianti del trauma: il veterano devastato, il pugile autodistruttivo, figure che sembrano incapaci di sostenere il peso dell’esistenza se non tramite l’automutilazione o la vendetta. In questi corpi sfiniti, la nazione intera si rifrange come attraverso uno specchio infranto. De Niro non interpreta personaggi, li incarna come stigmate, come ferite aperte.

C’è in lui una pulsione sacrale e mortifera, come se il suo metodo — il celebre “Metodo” stanislavskiano, portato all’estremo — fosse in realtà una pratica sciamanica: farsi tramite del dolore collettivo, caricarsi dell’inconscio nazionale, attraversare il delirio per esorcizzarlo. Ogni sua metamorfosi fisica — l’ingrasso titanico per Raging Bull, la torsione psicotica di Cape Fear — è una deposizione: il corpo privato, offerto in sacrificio all’immaginario collettivo.

Cinquant’anni dopo Travis Bickle, il volto di De Niro ci guarda ancora, ed è sempre meno umano, sempre più simbolico: una maschera, appunto. Una maschera che ride geme, urla, tace; che si sporca, si consuma, si frantuma. De Niro ha interpretato gangster, padri, comici falliti, rivoluzionari: ma sotto ogni travestimento, persiste quella stessa tensione primordiale, quel nodo irrisolto tra la solitudine e il bisogno di redenzione, tra l’autoaffermazione e il collasso.

In questo senso, il premio che Cannes gli tributa è anche una dichiarazione: il cinema, arte della memoria vivente, riconosce in De Niro una delle sue maschere supreme. Non quella della bellezza, non quella dell’eroismo, ma quella dell’allucinazione. E riconosce, in controluce, che l’America stessa — l’America di oggi, quella che ancora brandisce i suoi miti e i suoi fantasmi — non ha mai smesso di essere Travis Bickle: sola, armata, in cerca disperata di senso, davanti allo specchio del proprio abisso.

“You talkin’ to me?” — ci chiede ancora Travis/De Niro, mezzo secolo dopo.
Sì, gli rispondiamo: stiamo ancora parlando con te. Perché sei tu che, come una maschera tragica, continui a custodire il volto sepolto della nostra follia.

 

* Cinematografo

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