Testimoniò il realismo dell’utopia
 
                “Preghiamo per la sua anima, raccogliamo il meglio della sua eredità per il Paese e per il mondo e lo ringraziamo per la sua vita austera. Pensiamo che oggi già si sarà incontrato con quel Dio che cercò e non incontrò nella terra, ma che seppe rispettare”. L’arcivescovo di Montevideo, il cardinale Daniel Sturla, ha accolto con queste parole il decesso di José ‘Pepe’ Mujica, ex presidente dell’Uruguay, il personaggio del Paese sudamericano più celebre al mondo. Mujica era famoso per la sua semplicità: riceveva dallo Stato poco più di ottomila euro al mese per la sua attività, ma ne donava la gran parte a organizzazioni non governative e famiglie bisognose. Aveva un Maggiolino azzurro degli anni ottanta, dono di alcuni amici. Abitava in una piccola casa rurale alla periferia di Montevideo e, durante il suo mandato, aveva rinunciato a vivere nel palazzo presidenziale. Tratteneva per sé una piccola quota di stipendio, poco più di ottocento euro: tutto ciò lo fece diventare “il Presidente più povero del mondo”. Era povero, era nato povero ed era cresciuto fra gli orti e la fame. E quella povertà non la tradì mai, non per ideologia, ma per fedeltà, a sé stesso, alle sue radici, alla sua famiglia, alla sua gente. Aveva imparato a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è superfluo: un principio di vita, nella quale ogni spesa era equilibrata. La sua felicità non si fondava sul lusso o sui beni materiali: scaturiva dalla capacità di gustare i veri piaceri di ogni giorno. Le molte vicissitudini della vita lo avevano portato a comprendere e sentire le emozioni altrui, sapendo che il supporto emotivo è essenziale come quello materiale. Voleva a tutti i costi restituire: per lui era condividere il tempo, le energie e le risorse. Ecco perché nessuna auto blu, nessun autista, nessuna residenza presidenziale. Dormiva nella sua casa rurale, con i fiori sui davanzali, curava le sue galline, guidava il trattore per il lavoro nei campi, giocava con la sua meticcia senza pedigree e con sole tre zampe. Sognava, sognava in grande, ma avendo saldamente i piedi a terra e nella terra e avendo le mani straripanti di semi. Ha governato ma senza ordinare, ha ricevuto ma non ha trattenuto, perché non ha mai posseduto alcunché, se non l’indispensabile, il necessario, l’essenziale. Parlava, dialogava, ragionava con tanta autorevolezza, non fu mai un venditore di corbellerie. Non alzava mai la voce, ma ogni sua parola era un grido di civiltà: “La sfida di questa nostra epoca è la redistribuzione della ricchezza”. Fu tutto ciò che non c’è più. Fu una vera guida in un mondo di maschere. Fu la voce dei poveri, dei diseredati, degli sfruttati, in un tempo e in un mondo che sa parlare unicamente il linguaggio dei numeri. Ma appena poteva tornava a lavorare nei suoi campi. Ma ciò solo perché il potere non gli era congeniale: gli pesava addosso come una fastidiosissima armatura da cavaliere del Medioevo. Tuttavia Mujica non era un santo e, per di più, si diceva apertamente ateo. Ma, di sicuro, era un essere umano in possesso di una qualità più che rara: era coerente. Pagò con la prigione, fu chiuso per dodici anni in una cella senza aria, senza luce, senza voci, senza il nome. Fu torturato, martoriato, seviziato, per lunghi, lunghissimi tempi. Gli furono strappati pezzi di carne e di anima. Ma quando uscì dal carcere, quando diventò un eroe nazionale, non chiese vendette, rappresaglie, regolamenti di conti. Non poteva farlo perché non era un “anti” qualcuno o un “anti” qualcosa, perché era un “pro”. Chiese giustizia, non tanto per sé stesso, quanto per la sua gente, per il suo popolo. Pretese, volle fortissimamente, l’avvenire per la sua gente, per il suo popolo. E lo realizzò con il pane, con il lavoro, con l’istruzione, con l’assistenza sanitaria. Ma non volle mai nulla per sé stesso, specialmente negli ultimi tempi. Sapeva tutto e lo aveva detto a tutti con la sua schiettezza disarmante, il 9 gennaio scorso, quando annunciò che la metastasi del tumore all’esofago, scoperto nel 2024, aveva intaccato il fegato e che non si fermava, che non avrebbe più rilasciato interviste e accettato accanimenti terapeutici. E aggiunse: “Il mio ciclo è finito … sinceramente … sto morendo. Il guerriero ha diritto al suo riposo”. Pur affermando di essere non credente, aveva, e spesso lo esprimeva apertamente, un grande rispetto per la Chiesa cattolica. Non si può negare che, durante la sua presidenza, furono varate leggi in contrasto con i principi non negoziabili, ma ciò non mutò l’apprezzamento che nutriva il mondo cattolico dell’Uruguay per Mujica. Perché, con la sua vita, ha dimostrato che il cambiamento è possibile, anche nei luoghi del potere, che si può fare politica senza perdere l’anima e che si può governare senza cessare di dare ascolto. Le parole del cardinale Sturla, primate del Paese, hanno fatto rammentare un colloquio con padre Leonardo Azzollini, un gesuita della Sezione San Luigi della Facoltà Teologica di Napoli: “E se fra i santi ci sono uomini e donne sconosciuti a me, a te, alla Chiesa, ma noti solo a Dio! Che scherzo! E chi potrebbe impedire a Dio di mandare, fra i santi, persone che, senza saperlo, senza volerlo, hanno cooperato alla costruzione della Gerusalemme Celeste?”
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