Tracce

Uno stupendo gol … nella propria porta

Berkeley – Foto Ansa/Avvenire
03 Giu 2025

di Emanuele Carrieri

Lo shock del discorso di insediamento di Trump è stato, in questi mesi, accantonato dalla abitudine agli annunci, agli attacchi, alle inversioni di marcia, ai proclami, alle provocazioni e a centotrenta ordini esecutivi firmati in cento giorni. Però l’abitudine non è una faccenda positiva se crea assuefazione e, innanzitutto, se restano, sul tappeto del tavolo di lavoro, tutti i problemi, gravemente non risolti: dalle guerre che avrebbe dovuto far terminare in 24 ore ai temi economici e, primariamente, al caos sui dazi, aggrovigliatosi ancor più nelle ultime ore. Ormai è chiaro il fatto che la autentica vocazione di Trump sia quella del baro seduto al tavolo da gioco del poker e che una lettura soltanto commerciale dell’universo lo induca a ridurre qualsiasi questione a una trattativa nella quale si spara molto alto per ottenere comunque qualcosa. Vale per tutti l’esempio del trambusto sui dazi: al di là che la decisione avversa della Corte del commercio internazionale degli Stati Uniti è stata valida solo per poche ore perché la Corte di appello ha accettato il reclamo dell’amministrazione, la realtà dei fatti racconta che le tariffe effettive applicate oggi dagli Stati Uniti sono ben sei volte superiori a quelle praticate soltanto pochi mesi fa. Nel frattempo, il dollaro si è deprezzato aiutando le esportazioni americane. Per quanto raggiunti in modo quasi casuale, poco ortodosso e anche controproducente, sono, comunque, dei risultati che Trump può illudersi di aver incamerato a sostegno dell’economia americana. Fra tutte le battaglie che Trump sta combattendo ce n’è una che al contrario non ha alcun senso da qualsiasi punto la si osservi, e non solo in termini etici o di opportunità: è quella iniziata contro le principali università. La destra americana più anacronistica, più ortodossa e più reazionaria non ha mai digerito gli ambienti delle università, in special modo quelle più prestigiose, perché ritenuti “radical chic” nella migliore delle ipotesi, se non proprio ambienti “rivoluzionari salottieri” o, senza sottintesi, di sinistra o addirittura comunisti. Quella destra non ha mai tollerato di quelle università l’attenzione ai problemi sociali, spesso annessa all’attivismo e alla lotta per la giustizia. Come non ricordare, su questo tema, le forti tensioni ai tempi del “Black Lives Matter” – movimento originato fra gli afroamericani che lotta contro il razzismo verso le persone nere – e le accuse dei repubblicani di radicalismo e esagerazione circa la reale portata delle problematiche sociali denunciate? Fin qui è un discorso politico, una urticante battaglia di retroguardia sovranista che non aspettava altro che un appiglio per scagliarsi contro le università. La scusa è stata quella di non aver impedito episodi di antisemitismo, nei campus, durante le proteste contro il governo di Netanyahu per la mattanza nella striscia di Gaza. Ma sugli esiti della guerra scatenata contro Harvard e le altre grandi università a colpi di tagli ai fondi e di revoca dei visti necessitano delle considerazioni commerciali, economiche, mercantili, visto e osservato che è la logica sta tanto a cuore a Trump e al suo team. La elencazione delle contestazioni corre il rischio di essere densa. Allo stato attuale, la stretta non colpisce solo le élite universitarie ma ha una conseguenza sull’intero sistema economico: nell’anno accademico 2023 – 2024, sono stati più di un milione gli studenti provenienti dall’estero che hanno contribuito per oltre quaranta miliardi di dollari all’economia statunitense. All’interno di questo panorama sono compresi stati tutt’altro che dem, come il Texas, che, per esempio, ha guadagnato due miliardi e mezzo di dollari dagli studenti stranieri. Ma occorrono anche delle considerazioni relative a beni immateriali, come il talento, l’ingegno, la genialità. La stragrande maggioranza delle startup di successo che nasce, ogni anno, negli Stati Uniti ha a piè di pagina una firma straniera. La capacità di attirare i “fenomeni” da ogni angolo del pianeta è, del resto, sempre stata una delle grandi forze degli Stati Uniti. Se gli Stati Uniti ottennero la bomba atomica prima di ogni altro fu per lo svizzero Felix Bloch, il danese Aage N. Bohr, l’inglese James Chadwick, il tedesco Einstein, l’italiano Fermi, l’austriaco Robert Frisch, la cinese Wu Jianxiong, il polacco Jozef Rotblat, lo svedese Glenn Seaborg, il canadese Louis Slotin, l’ungherese Leo Szilard e per tanti, molti scienziati provenienti da altre nazioni del mondo. A pensarla così dev’essere anche Allison D. Burroughs, la giudice federale di Boston che ha bloccato la revoca del Dipartimento di Sicurezza Interna dell’utilizzo da parte di Harvard del programma per studenti e visitatori di scambio. Forse – avrà pensato il genio di turno nello Studio ovale – è una pericolosa toga rossa. Però se un Paese è attrattivo lo deve anche al valore delle sue università. Università prestigiose si trasformano nella vocazione di attirare le intelligenze migliori, di formare nuove generazioni di manager e imprenditori, di creare le future classi dirigenti, di fornire cervelli brillanti alle aziende, in sostanza di creare valore. Basta guardare la classifica delle migliori università del mondo: il Massachusetts Institute of Technology, Harvard, Princeton, Stanford, il California Institute of Technology, Berkeley e Yale. Come l’idea di abbattere quei ponti di cui l’umanità ha da sempre bisogno possa divenire un tornaconto per gli Stati Uniti rimane un fatto incomprensibile. Anche perché i cervelli quando iniziano una fuga, non si fermano più e vanno in altri posti, forse in Cina. Uno stupendo goal … nella propria porta.

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