Intelligenza artificiale

Don Peyron: “L’intelligenza artificiale interroga la fede, serve un’antropologia profetica”

Dopo il discorso di papa Leone XIV alla Cei, abbiamo raccolto il commento del sacerdote torinese, teologo esperto di cultura digitale

ph Siciliani Gennari-Sir
09 Lug 2025

di Riccardo Benotti

“La fede ha ancora una pertinenza con la vita”. Don Luca Peyron, sacerdote torinese e teologo esperto di cultura digitale, commenta uno dei passaggi più densi del discorso rivolto da papa Leone XIV ai vescovi italiani: quello sull’antropologia e sulle sfide poste dall’intelligenza artificiale. Un intervento, afferma, “profetico e non di circostanza”, che rilancia la missione della Chiesa in un tempo segnato dalla tecnocrazia. “La sfida – dice – è pensare cristianamente il nostro tempo, per custodire e annunciare la dignità della persona come creatura e mistero”. La persona non è un sistema di algoritmi: è creatura, relazione, mistero.

Nel suo discorso alla Cei, Leone XIV ha detto che “la persona non è un sistema di algoritmi: è creatura, relazione, mistero”. Come interpreta questo passaggio?
Non è un invito formale, ma una scelta sostanziale. Non è un discorso di circostanza. Il Papa desidera che questo tema entri nel cuore della riflessione delle Chiese, non solo di quella italiana. Fin dall’inizio del suo ministero ha posto l’intelligenza artificiale tra i segni dei tempi. Leone XIV non parla solo di tecnologia, ma intreccia pastorale e antropologia. Quando insegniamo il catechismo ai bambini, ci rivolgiamo a nativi digitali. Quando parliamo di carità, dobbiamo tenere conto anche del divario esistenziale generato dai social media. E quando diciamo “salvare”, i nostri contemporanei pensano a un file. Tutto questo ci lascia pensosi.

Chi è don Luca Peyron
Sacerdote della diocesi di Torino, don Luca Peyron è uno dei principali esperti italiani di teologia e cultura digitale. Fondatore e coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale dell’arcidiocesi di Torino, è docente all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Torino. Da anni studia l’impatto delle tecnologie emergenti, in particolare dell’intelligenza artificiale, sull’antropologia cristiana e sulla pastorale. Ha partecipato a diversi sinodi e convegni nazionali sul rapporto tra fede e innovazione.

Quindi non basta un’etica della tecnologia. Serve altro?
Esatto. Non possiamo limitarci a fornire criteri per governare le tecnologie. Dobbiamo offrire un’antropologia profonda, che sia guida e profezia. Non basta dire “attenzione, ci sono dei rischi”. Siamo chiamati a indicare un orizzonte di senso e una meta per l’umanità immersa nel digitale. Non possiamo semplicemente adattare il noto al nuovo. Serve un discernimento spirituale che nasce dalla Scrittura.

In questo discorso si intravede una sintesi dei Papi precedenti?
Mi pare evidente. Leone XIV prosegue il cammino di Francesco e, per certi aspetti, recupera intuizioni di Benedetto e Paolo VI. Ciò che emerge è un’antropologia cristologicamente fondata: il punto di incontro autentico con il mondo. L’umanità di Cristo è un patrimonio condivisibile anche da chi non ne riconosce la divinità. E non si può spezzare Cristo: annunciando la sua umanità, annunciamo tutto il Vangelo.

Perché Leone ha scelto proprio la Cei come prima Conferenza episcopale a cui rivolgere questo appello?
Credo sia una sorta di “sperimentazione pastorale”. È vescovo di Roma e ha scelto la sua Conferenza episcopale per rilanciare un tema già affidato da Francesco a università cattoliche e diocesi. Ma ora è evidente a chiunque che è tempo di agire. Serve animare un dibattito culturale che abbia un’anima: l’antropologia teologica, centrata su Cristo.

Le parole di Leone XIV
Nel discorso rivolto alla Conferenza episcopale italiana il 17 giugno 2025, Papa Leone XIV ha dedicato un passaggio centrale al tema dell’intelligenza artificiale. “La dignità dell’umano – ha affermato – rischia di venire appiattita o dimenticata, sostituita da funzioni, automatismi, simulazioni. Ma la persona non è un sistema di algoritmi: è creatura, relazione, mistero”. Il Papa ha chiesto alle Chiese italiane di assumere la visione antropologica come strumento essenziale del discernimento pastorale, per evitare che l’etica si riduca a codice e la fede diventi disincarnata.

Quali ricadute vede sul piano pastorale?
La ricaduta è enorme. Ogni battezzato che rende ragione della sua fede è invitato a ripensare la propria testimonianza. Non possiamo semplicemente adattare il noto al nuovo. Serve rivisitare Scrittura e Tradizione affinché lo Spirito ci suggerisca elementi utili a discernere e guidare il tempo attuale.

Ha un esempio concreto?
Nel Vangelo di Matteo, Gesù è definito “facitore di tecnologia”. Non è un dettaglio. È un titolo cristologico, che per secoli non abbiamo granché esplorato. Se oggi una macchina imita l’umano, allora quel titolo acquista un peso nuovo. I Vangeli contengono tesori che parlano ad ogni stagione culturale. Non è tempo di nostalgie, ma di profezie. La Chiesa ha una responsabilità storica: ridire l’umano.

Quindi non si tratta di aggiornare l’esistente, ma di avviare una nuova esplorazione?
Proprio così. Non dobbiamo fare la glossa di ciò che è già stato detto, ma riprendere la Scrittura con occhi nuovi. Non è questione di colpe o mancanze, ma di un novum che chiede di essere scoperto.

Serve anche un cambio di mentalità nel modo di fare pastorale?
Dobbiamo uscire dalla logica del “cercare colpevoli” per ciò che non ha funzionato. Non è tempo di nostalgie, ma di profezie. E oggi manca profezia. Non ci sono più profeti né di ventura né di sventura. La Chiesa ha una responsabilità storica rinnovata: offrire parole e gesti che ridicano la pienezza dell’umano a un umano smarrito e in cerca di identità.

La Chiesa può ancora incidere nella vita quotidiana delle persone?
Abbiamo davanti ogni settimana centinaia di persone. Non dobbiamo fare lezioni di intelligenza artificiale, ma annunciare Gesù Cristo. Ma Cristo è oggi, in questo tempo. La preparazione di chi fa pastorale deve nutrire il popolo di Dio con conoscenza e profezia. C’è in gioco la libertà, le relazioni, la solitudine. La fede. La pastorale della cultura non è per intellettuali: è soprattutto per le persone semplici, troppo spesso in balia dei titoli “acchiappa-click”. Nell’epoca delle macchine e della virtualità digitale, Cristo resta l’orizzonte in cui l’umano può ancora compiersi.

Cosa risponde a chi dice che la Chiesa è sempre in ritardo su scienza e tecnologia?
È un mito da sfatare. La Chiesa ha duemila anni di storia. Solo in pochi secoli ed in alcune circostanze ci siamo arroccati. Per il resto ha generato cultura, scienza e tecnologia. Dall’irrigazione nelle missioni in Africa al Big Bang di Le Maître, prete e cosmologo. L’idea stessa di progresso è figlia del cristianesimo. La cultura precristiana era ciclica. Noi abbiamo introdotto la parola “compimento”. Un cammino, un pellegrinaggio, una crescita. Oggi è il momento di riconsegnarlo al mondo.

Qual è, in definitiva, la sfida più urgente per la Chiesa?
Oggi abbiamo una nuova possibilità di mostrare che la fede ha una pertinenza reale con la vita. Perché la vita interroga profondamente la fede cristiana: ci chiede incarnazione e redenzione, corpo e metafisica. Nell’epoca delle macchine e della virtualità digitale, Cristo resta l’orizzonte in cui l’umano può ancora compiersi pienamente. Qui e nell’eternità.

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