Le dimissioni di Bitetti sono soltanto l’effetto di una contrapposizione insanabile
L’idea di affidare a un accordo di programma, improvvisamente impellente, non poteva che esasperare le contrapposizioni che caratterizzano la convivenza nella città di Taranto. Un’esasperazione di cui le dimissioni del sindaco Bitetti sono una dimostrazione pratica, ma che resta al fondo della storia recente e che non sortirà soluzioni indolori. È almeno un quarto di secolo, cioè da quando l’allora sindaco Di Bello chiuse le cokerie, che lavoro e salute si muovono su piani contrapposti e danno vita a quello che è ormai nella storia come: ricatto occupazionale. Ma sono anche passati 13 anni dal sequestro Ilva ordinato dal giudice Patrizia Todisco, senza che nessun governo abbia avviato una vera svolta.
Tutte le forze politiche, quasi tutte quelle sindacali, ma anche la gran parte della società civile e delle associazioni devono condividere un “mea culpa” generalizzato quanto ormai inutile. Perché ora si deve scegliere: tra la continuità produttiva, che almeno per un po’ di anni causerà ancora inquinamento, ma consentirà a migliaia di famiglie di avere ancora un reddito, e la chiusura degli impianti, che fermerà le emissioni ma non l’inquinamento che dagli impianti continuerà a riversarsi sul territorio, e priverà del reddito quelle migliaia di famiglie di cui, va detto anche questo per onestà, solo una minoranza è di Taranto. E in effetti le organizzazioni sindacali oggi hanno già fatto sentire la loro voce: “Il fallimento e la chiusura dell’Ilva sarebbero un disastro ambientale”.
Ma scegliere non è facile e non è indolore. Mettiamo che Bitetti riesca, ammesso che ne abbia la forza e la volontà, di mettere in moto un meccanismo che porti alla chiusura della fabbrica, chi può immaginare che non saranno stavolta le maestranze a scendere in piazza e occupare il municipio, proprio come avvenne quando la Di Bello chiuse le cokerie? E allora? Bitetti si dimetterà un’altra volta?
E come mai contro i governi che si sono succeduti e le loro scelte scellerate non c’è mai stata una protesta efficace? La farsa della vendita a Mittal, dopo il deleterio regalo a Riva, e la nuova farsa di previsione di cessione a un’azienda pressoché inesistente, nascondono solo incapacità politica. Ora anche la pretesa del governo Meloni e del ministro Urso di calendarizzare un improvvido incrocio tra ripresa del ciclo integrale e un passaggio ai forni elettrici, è molto pretestuosa, oltre che tardiva. Anche la vicenda della nave gasiera, diventata improvvisamente impellente, anche se ci vogliono anni per la costruzione dei nuovi impianti, ha qualcosa di intimidatorio e fuorviante. I tecnici incaricati dal governo sostengono che si può allocare in pochi mesi, ma allora perché tanta fretta se per costruire i dri ci vogliono anni!? E forse ha più a che fare con il nuovo accordo sui dazi o con le pretese di Baku Steel, che con la produzione di preridotto, per la quale il governo prevede ancora anni di tempo! Jindal, concorrente di Baku Steel, definisce, nella sua proposta, assolutamente inutile la nave gasiera pretesa dagli azeri. Ma la verità dove sta?
È evidente che Urso sta, a sua volta, scaricando la patata bollente sulla comunità di Taranto, mettendo intenzionalmente in difficoltà Regione e Comune. Lo avevamo scritto nei giorni scorsi: le decisioni sono troppo importanti per affidarle a un accordo frettoloso. Sul quale incombono varie minacce… Guarda un po’: Genova che ospiterebbe volentieri forno elettrico e impianto dri è la stessa che ha scaricato a Taranto la sua quota di produzione col carbone! Purtroppo a chi gestisce la cosa pubblica spesso fa un po’ difetto la memoria e allora, per dare un piccolo aiuto propongo qui di seguito la prima parte di un articolo che pubblicai su ‘Nuovo Dialogo’, il 19 dicembre 2004, dopo la sottoscrizione del terzo dei cinque accordi-farsa sottoscritti a Bari con la regia di Raffaele Fitto, allora governatore, che fingevano di impegnare Riva a risanare, ma in realtà lo aiutavano a inquinare ancora:
“Evidentemente è prevalso il ricatto occupazionale. Se non avevamo condiviso il primo accordo tra Ilva e enti locali del gennaio 2003, non avevamo compreso l’entusiasmo con cui era stato salutato l’accordo del febbraio 2004, non possiamo assolutamente condividere la soddisfazione di istituzioni e sindacati per il terzo, ultimo in ordine di tempo (ma chissà mai se definitivo!) accordo sottoscritto a Bari con la regia del governatore, Raffaele Fitto.
Leggendo attentamente i contenuti dell’intesa, infatti, non rileviamo alcun fatto, alcun progresso significativo. Nulla, insomma, che giustifichi il tanto rumore attorno a questo nuovo atto, molto propagandato ma poco significativo. Ecco perché sosteniamo che più che i contenuti del terzo accordo, il quale altro non è che l’esplicita ammissione che nei due anni scorsi, dopo due atti d’intesa e tanti convegni, non si è fatto assolutamente nulla, sia prevalso il ricatto occupazionale. Ci spieghiamo meglio e ricapitoliamo l’intera vicenda a beneficio di chi non fosse molto addentrato nella materia.
L’Ilva e i Riva sono stati condannati dalla magistratura in primo e secondo grado per il grave inquinamento provocato dai parchi minerali aperti, che riversano sui quartieri limitrofi e sul Comune di Statte (ma non solo!), decine di tonnellate di minerali e polveri tossiche. La magistratura ha, inoltre, disposto la requisizione dei parchi stessi, dando però due anni di tempo all’Ilva per avviare il risanamento del reparto, con la creazione delle condizioni necessarie perché termini la diffusione delle polveri minerali.
Ora che il processo sta per approdare all’ultimo grado di giudizio, davanti alla Corte di Cassazione, l’Ilva ha chiarito definitivamente che di attuare interventi drastici per risolvere la diffusione di polveri non ne vuol neppure parlare e che se la suprema corte confermasse il giudizio non gli resterebbe che chiudere l’Ilva e licenziare i dipendenti. Di fronte a questo pericolo, gli enti locali, che pure avevano promosso l’azione giudiziaria, hanno fatto dietro front, al punto tale da decidere persino di ritirare la costituzione parte civile nel processo, per alleggerire la posizione giudiziaria dell’azienda, prendendo per buoni gli impegni che ha assunto e sostanzialmente confermato, con piccole modifiche, alcune delle quali insignificanti, come l’obbligo dei mezzi di trasporto che viaggiano all’interno dello stabilimento, di procedere a passo d’uomo…”.
Non viene da ridere? Ma l’articolo continua ancora, come questa storia infinita che, comunque si chiuda, avrà gravi conseguenze.
Ma intanto siamo convinti che Bitetti tornerà al suo posto, anche se è un posto che brucia molto in questi giorni, perché abbandonarlo gli meriterebbe la definizione che Dante dette a Celestino V come colui “che fece per viltade il gran rifiuto”.
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