Naufragio di migranti

Dopo il naufragio di Salakta, mons. Lhernould (Tunisi): “Non basta commuoversi, servono azioni concrete e condivise”

foto Afp-Sir
24 Ott 2025

di Riccardo Benotti

Un nuovo naufragio ha sconvolto la costa tunisina di Salakta, nei pressi di Mahdia. L’imbarcazione, partita in modo clandestino verso l’Europa, è affondata nella notte tra il 21 e il 22 ottobre. Secondo la Guardia costiera tunisina, almeno quaranta migranti, tra cui diversi bambini, hanno perso la vita, mentre trenta persone sono state tratte in salvo. Un dramma che si ripete e che interroga le coscienze. Ne parla mons. Nicolas Lhernould, vescovo di Tunisi.

foto La Croix

Eccellenza, il naufragio di Salakta ha provocato decine di vittime. Come ha vissuto questa nuova tragedia?
È un fatto terribile. Non è un naufragio in più: sono persone, vite uniche che si spengono. Come ha detto papa Francesco, non dobbiamo mai abituarci a queste cose. Purtroppo, i naufragi si ripetono da anni e questo ha avuto un numero altissimo di vittime. Ma non sono cifre: sono uomini, donne, bambini.
Il pensiero va alle loro famiglie, che forse neppure sanno che i loro cari sono morti in mare. Davanti a questi drammi, il cuore sanguina.

Cosa prova, come pastore, davanti a un dolore che sembra non avere fine?
Un dolore molto profondo. Un dolore che tocca tutti, credenti e non. Ogni volta ci troviamo a piangere persone che cercavano vita, speranza, futuro. Ciò non può essere ottenuto con mezzi pericolosi e proibiti, dove è in gioco niente di meno che la vita delle persone. Ma accanto alla tristezza nasce anche una domanda: come mai le persone sono spinte a rischiare la vita in questo modo, che siano consapevoli o meno dei pericoli, e cosa fare collettivamente per garantire che simili tragedie non si ripetano?

La Tunisia è spesso luogo di transito per chi tenta di raggiungere l’Europa. Che cosa sta accadendo oggi nel Paese?
Bisogna ricordare che chi arriva in Tunisia per tentare di passare in Europa ha già attraversato il deserto del Sahara, che oggi è diventato il più grande cimitero del mondo. Lo ha ricordato papa Francesco a Marsiglia, nel 2023. Le ragioni che spingono le persone a partire sono molte: povertà, insicurezza, assenza di prospettive… Alcuni partono spinti dalla disperazione, altri per ingenuità, perché qualcuno promette loro un futuro migliore che poi non esiste.

Ci sono anche reti di sfruttamento dietro questi viaggi della speranza?
Sì, purtroppo esistono reti di trafficanti che approfittano del desiderio di speranza e trascinano la gente in situazioni terribili. La Tunisia ha assunto una posizione molto ferma contro l’immigrazione illegale e lo status irregolare.
Uno degli obiettivi è proprio quello di lottare contro il traffico di persone vulnerabili da parte di tali reti.
Ho provato sollievo nel leggere che, grazie alla Guardia costiera tunisina, trenta persone sono state salvate. Purtroppo quaranta, tra cui anche bambini, sono morte. Il dramma è che queste partenze avvengono in modo del tutto clandestino, e noi ne veniamo a conoscenza solo a tragedia avvenuta. È doloroso, perché nessuno dovrebbe essere costretto a mettere in gioco la propria vita per una speranza che, spesso, è solo un miraggio.

Qual è oggi il volto della Chiesa tunisina?
La nostra è una piccola Chiesa, familiare: circa trentamila fedeli su una popolazione di dodici o tredici milioni di abitanti, provenienti da circa ottanta nazionalità. Un piccolo specchio della Chiesa universale. Il nostro impegno si concentra attorno a tre parole: contemplazione, cultura e carità.

In che modo vivete concretamente queste tre dimensioni?
Siamo, come dicevano i monaci di Tibhirine in Algeria, “persone che pregano in mezzo ad altre persone che pregano”. La preghiera e la testimonianza silenziosa sono il nostro primo linguaggio. Poi c’è la cultura e l’educazione, con centri culturali e nove scuole che animiamo nel Paese. Infine la carità: una piccola Caritas e molte iniziative di solidarietà, spesso nate dal contatto diretto con chi è nel bisogno.

Come risponde la Chiesa locale al dramma delle migrazioni?
Davanti alle migrazioni, la nostra risposta si fonda su tre atteggiamenti. Il primo è la “disponibilità del buon samaritano”: come il buon samaritano, cerchiamo di fare il possibile per alleviare la sofferenza di chi incontriamo. Il secondo è l’ascolto: molti hanno smarrito la bussola della propria vita. Nei centri di ascolto, cerchiamo di accompagnarli nel discernimento, aiutandoli a riscoprire una speranza reale, non illusoria. Il terzo è l’aiuto al ritorno volontario. Per un migrante, tornare a mani vuote è doloroso, ma cerchiamo di sostenerlo anche in collaborazione con altri, come l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e con Caritas sorelle in Africa.
Aiutiamo anche i tunisini desiderosi di rientrare dopo esperienze difficili in Europa, sostenendoli nel reinserimento, affinché ritrovino fiducia e radicamento nel proprio Paese.

Cosa la colpisce maggiormente nel rapporto con i migranti che incontrate?
Incontriamo le persone in movimento quando loro stesse vengono a noi. Il dono più grande è la fiducia che la gente ripone in noi. Vengono non solo per chiedere aiuto materiale, ma anche per cercare una parola fraterna, un ascolto umano. In fondo, il bisogno più profondo degli esseri umani è sentirsi accolti e riconosciuti.

Che messaggio vuole lanciare alle istituzioni europee dopo questa tragedia?
La questione politica è complessa, ma la bussola deve restare una sola: il rispetto incondizionato della persona umana. La Scrittura, nel libro della Sapienza, dice che “il giusto deve essere umano”. Ogni essere umano, migrante o no, è immagine e somiglianza di Dio.
Il problema non è solo politico o numerico, ma deve essere affrontato con uno sguardo “faccia a faccia”, di persona a persona, come ricorda il Papa.

Cosa serve, secondo lei, per superare la logica dell’emergenza e guardare al futuro?
Bisogna andare alle radici. Non basta commuoversi per le tragedie: occorre affrontare le cause che spingono la gente a partire, con una collaborazione sincera tra Nord e Sud. E serve anche ascoltare le paure delle opinioni pubbliche europee: solo così si può trasformare la paura in una relazione umana e razionale, orientata al bene comune. Non basta gestire l’emergenza: occorre costruire un futuro condiviso.

 

Chi è mons. Nicolas Lhernould

Nato nel 1975 a Courbevoie, in Francia, è vescovo di Tunisi dal gennaio 2020. Ordinato sacerdote nel 2004 per la diocesi di Tunisi, ha vissuto per oltre quindici anni in Tunisia, a Sousse e Monastir, dove ha svolto ministero pastorale tra i giovani e nel dialogo interreligioso. È stato anche parroco a Sfax e responsabile nazionale della Caritas Tunisia.

I numeri dei migranti morti nel Mediterraneo

Secondo i dati del Missing Migrants Project dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dal 2014 a oggi oltre 33.000persone hanno perso la vita o risultano disperse nel Mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Nel solo 2024 si contano circa 2.450 vittime, uno dei bilanci più gravi dell’ultimo decennio. Dall’inizio del 2025, le stime aggiornate indicano già oltre 1.000 morti o dispersi. Il Mediterraneo resta la rotta migratoria più pericolosa al mondo, simbolo di una crisi umanitaria che chiede risposte condivise e durature.

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