Trump tifa per la Sampdoria?
 
                “Quando sarò eletto presidente degli Stati Uniti, farò smettere la guerra in Ucraina in meno di 24 ore”: questa fu la pappardella di Trump durante la campagna elettorale. Adesso che le ore si sono trasformate in mesi – quattro dal suo insediamento ufficiale nello Studio ovale della Casa bianca – si vede costretto a rinviare a data da destinarsi, e per l’ennesima volta, l’annuncio perlomeno di un cessate il fuoco. Questo è il risultato raggiunto a tutt’oggi, anche alla luce della ormai famosa telefonata di quasi due ore e mezza con Putin, presentata dallo stesso Trump come un passo avanti, finalmente concreto, verso la pace e finita in un nuovo, eclatante fiasco. Poi, per cercare di nascondere la realtà, ci si può attaccare a tutto. Alla durata della telefonata oppure al ritornello abituale – “Sono convinto che Putin voglia trattare” – già ripetuto da Trump una immensità di volte e che comunque mal si addice a uno che, trovandosi a capo della prima super potenza mondiale, dovrebbe guardarsi dal fare la figura di quello che attende, con pazienza e con il cappello in mano, le decisioni altrui. O, ancora, al consueto comunicato del Cremlino affidato al portavoce del ministro degli Esteri, la solita e immutabile – se non altro, nella espressione più che minacciosa del volto – Marija Zakharova: “la Russia è pronta a continuare i contatti diretti con l’Ucraina per la pace e ora spetta a Kiev”. È, in ogni modo, la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che, a distanza di più di tre anni dall’inizio dell’aggressione russa, per il Cremlino spetta, sempre e comunque, all’aggredito, e non all’aggressore, dimostrarsi disponibile alla trattativa. In ogni caso, a trattare su che cosa? Non certo su una tregua, su un cessate il fuoco che, per avere un minimo di senso, dovrebbe protrarsi per almeno un mese così come proposto, oltre che da Kiev, anche da Trump e da tutti i leader europei, Meloni inclusa. No, quella idea è stata già comunque rifiutata da Putin nel corso della telefonata presentata dallo zar di tutte le Russie “intensa e franca” che, nella terminologia della diplomazia, significa un disaccordo pressoché completo su tutta la linea. Allora, su che cosa altro? Sul fatto che, prima di fare tacere, anche solo temporaneamente, le armi, Kiev accetti un negoziato dalla durata indefinita e nel quale si discuta di tutto, inclusa la cessione dei propri territori già conquistati da Mosca e di quelli dove ancora si combatte. Non soltanto: inclusa la rinuncia formale a entrare in futuro nella Nato e nella Ue. Non basta: inclusa anche la propria cosiddetta “denazificazione” che, tradotto sempre in soldoni, significa la fine del governo Zelensky e la sua sostituzione con una nuova compagine gradita a Mosca, in stile bielorusso, alla Lukashenko. Domanda comprensibile: c’è qualcos’altro ancora? Sì, cioè lo smantellamento di tutte le forze armate ucraine di terra, di aria e di mare e la loro riduzione a una via di mezzo fra una milizia territoriale e una forza di polizia con i compiti di ordine pubblico. Pertanto, anche a volere considerare l’ipotesi, di per sé assurda, che gli ucraini siano disposti a sedersi intorno a un tavolo per trattare, non tanto una resa ma il proprio suicidio, quanto potrebbero durare dei negoziati del genere: dei mesi, degli anni? Ecco spiegato, con buona pace dei tanti alfieri, più o meno consapevoli, della propaganda russa, come e perché Putin abbia in testa una sola cosa: andare avanti a oltranza con la guerra. D’altra parte, non è il primo passante a pensarlo e a dirlo. “Si tratterà la pace solo dopo la nostra vittoria militare. Quando la avremo ottenuta, ci sarà la pace”. Sono parole di Alexandr Dugin, soprannominato “il Rasputin del Cremlino” o “l’ideologo di Putin”, immediatamente dopo la telefonata fra lo zar di tutte le Russie e Trump. Al colmo dell’entusiasmo, il teorizzatore ultranazionalista russo ha spiegato: “Se i due si sono messi d’accordo per risentirsi, allora tutto ciò è veramente magnifico!”. A gettare una secchiata di acqua fredda sulle aspettative create dal suo “franco e intenso colloquio” con Putin, è stato proprio lo stesso Trump dichiarando, durante la successiva conferenza – stampa, che “senza progressi nel negoziato mi sfilerò”. È tipico che Trump faccio ricorso a delle minacce inconsistenti, ma potrebbe anche trattarsi di un ricatto volto ad alzare, ancor più, la pressione su entrambe le parti. E c’è anche un’altra possibile interpretazione, assai meno rassicurante della prima, ossia che Trump stia considerando di disimpegnarsi offrendo a Putin – definito sempre nella conferenza stampa “un simpatico gentiluomo” – un successo diplomatico, oltre che una sorta di nulla osta a fare dell’Ucraina ciò che più gli pare e piace. Di certo, rispetto alle nuove sanzioni contro la Russia minacciate in precedenza, l’inversione a U di Trump è chiara. Provata anche dall’enfasi con cui ha rimarcato di “non poter pensare a un posto migliore del Vaticano per le trattative fra Ucraina e Russia”. Certo che l’unico a trovarsi di nuovo sotto pressione è ancora una volta Zelensky che è tornato subito a chiedere che gli Stati Uniti non si defilino dai negoziati. Un allarme fondato e che dà ragione anche alle preoccupazioni circa il rischio che – sull’Ucraina e non solo su quella – l’Occidente finisca per dividersi. Per fugare ogni ombra a riguardo, sarebbe bastato che Trump avesse domandato a Putin come mai la Russia sta rafforzando le proprie basi al confine con la Finlandia. Oppure, perché i suoi caccia hanno iniziato a fare da scorta alle petroliere della flotta fantasma russa violando gli spazi aerei territoriali di alcuni paesi della Nato. L’interrogativo di fondo a cui andrebbe data una risposta definitiva è, dunque, per chi fa il tifo Trump: per la pace, per sé stesso o per Putin? Come si dice a Taranto per indicare “un amico del giaguaro”, per la Sampdoria?
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