E la chiamano pace…
 
                Dopo le esibizioni di Trump, prima alla Knesset di Gerusalemme e poi all’International Congress Center di Sharm el-Sheikh, forse è opportuno mettere in luce quanto sta succedendo nelle ultime ore, dense di ordinaria violenza, in cui la fragile sospensione delle offensive israeliane rassomiglia molto all’ordine di “risparmiate le munizioni” di una momentanea tregua armata, piena di trappole e di punti deboli. Neppure il flusso degli aiuti umanitari, mandati alla popolazione civile della Striscia di Gaza, appare essere sicuro. Il governo di Netanyahu si riserva – anzi, si appropria – il potere di aprire, di sbarrare e di diminuire il flusso dei tir attraverso i varchi, come strumento di ritorsione e di rappresaglia nei confronti della popolazione civile della Striscia di Gaza. E si continua: nelle prime ore del mattino di venerdì un gruppo israeliano, Tsav 9, aderente all’estremismo di destra, ha fermato gli aiuti destinati alla Striscia di Gaza, sulla strada che porta al valico di Karm Abu Salem, e per farlo hanno utilizzato un passeggino, a bordo del quale c’era una neonata che, di fatto, si è trovata a pochi centimetri da un tir. Alla fine dei conti, saranno i civili a pagare, con fame e con restrizioni, eventuali interruzioni, problemi o ripensamenti nell’applicazione di un solo punto dei venti del “piano di pace” di Trump. Per ora la morsa che stringe la Striscia di Gaza è stata soltanto allentata ma non è stata rimossa: i pretesti e le scuse per riaprire in un modo o nell’altro le ostilità non mancano di sicuro. Il più importante è ciò che concerne la spinosa questione della restituzione delle salme delle persone rapite e decedute dopo il sequestro, che il governo di Netanyahu – ma anche parte dell’opinione pubblica israeliana – vorrebbe riconsegnate “tutte e subito”, sapendo in effetti, come confermato anche dalla Croce rossa, che si tratta di una impresa praticamente impossibile. Sotto gli enormi cumuli delle macerie della Striscia di Gaza, prodotti da due anni di bombardamenti da parte delle forze armate israeliane, potrebbero esserci migliaia di cadaveri, molti dei quali forse disintegrati. Non dovrebbe dunque meravigliare il fatto che Hamas fatichi a ritrovare rapidamente in questo paesaggio devastato i corpi degli ostaggi morti. Per dare un contributo, una task force egiziana è già entrata nella Striscia, ma il ministero degli Esteri turco ha annunciato che i suoi tecnici dell’organizzazione per i disastri e le emergenze sono ancora sul lato egiziano del confine, in attesa del permesso di Israele, restio alla collaborazione turca (chiara ritorsione al veto di Erdogan alla presenza di Netanyahu a Sharm el-Sheikh). Ma poi, che interesse avrebbe la milizia palestinese a temporeggiare sulla restituzione delle salme, dando a Netanyahu una scusa per colpire ex novo la Striscia di Gaza? Laggiù la pace sulla carta c’è ma nella realtà non si vede perché la pace trumpiana non ferma le mani assassine: è da poco arrivata la notizia che undici persone, fra cui sette minori e tre donne, sono state ammazzate in un attacco israeliano a un minibus, che aveva superato la “linea gialla sulla carta”, la linea di demarcazione prevista dagli accordi di pace. Ma quella pace non basta al grande mediatore di pace: adesso gioca con il modellino dell’arco di trionfo che vorrebbe far innalzare a Washington a sua perpetua fama e dà ordine alla Cia per una nuova guerra sporca, adesso sul terreno dopo l’impressionante dispiegamento di navi militari, contro il Venezuela. Ma, prima di tutto, vuole affrontare la guerra in Ucraina e, benché deluso da Putin dopo le promesse in Alaska, parla per due ore con lui fissando un vertice a Budapest a poche ore dalla visita di Zelensky a Washington, dalla quale esce dimesso e senza missili a lunga gittata, perché “servono anche a noi”. Una ammissione significativa di Trump: fare la pace con uno come Putin è più difficile nonostante il plauso dello zar di tutte le Russie per la firma del “piano di pace” in Medio Oriente. In realtà, nella Striscia di Gaza, della pace nessuna traccia ma una fragile e incerta tregua, mentre un’altra parte del popolo palestinese vive sotto l’occupazione militare e i soprusi dei coloni in Cisgiordania. Per la guerra in Ucraina sarà difficile riproporre in copia e incolla i venti aleatori punti della tregua a Gaza perché è il prodotto della fine della Guerra Fredda ma anche del fatto che “l’abbaiare della Nato alla porta della Russia” – sono parole di papa Francesco – ha indotto Putin a reagire, anche perché vorrebbe che le frontiere di tutte le Russie fossero le colonne di Ercole. Le operazioni belliche nella Striscia di Gaza, iniziate dopo l’assalto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, sono parte e prosecuzione del conflitto arabo-israeliano, iniziato ben settantasette anni fa. Differenze di tempo registrate, rimane il fatto che, nella Striscia, è andata in onda una “non-guerra”, cioè un conflitto non tradizionale, asimmetrico per i sistemi d’arma usati e per le vittime, in grandissima parte, civili. È una guerra nuova, un tiro al bersaglio, un massacro quotidiano e mirato su presenze umane, case e infrastrutture civili e sui civili esposti e indifesi, con offensive assolutamente asimmetriche, fra combattenti di uno degli eserciti più agguerriti al mondo, fornito di spirito di vendetta, jet, carri armati, intelligence e droni, contro una truppa paramilitare, male ideologizzata ma, malgrado tutto, ben armata. Gli Usa, in realtà, avrebbero potuto sempre e in ogni istante fermare Netanyahu, moderarne i propositi, correggerne i comportamenti. Se è vero che le dipendenze sono biunivoche, è vero che patrimonio e arsenale sono nelle mani di Trump. Gli Usa non hanno esercitato tale potere fin quando Netanyahu agiva in favore dei loro interessi geopolitici, senza pregiudicare i rapporti fra petromonarchie e America. Trump ha assecondato l’azione di forza di Netanyahu, ma, quando ha capito che iniziava a nuocere agli Usa, ha tirato su la leva del freno a mano. Se questa è pace …
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