“Il ritratto del duca”

È il suo ultimo film. “Il ritratto del duca” (“The Duke”) è l’opera che il regista sudafricano (inglese d’adozione) Roger Michell aveva presentato nel 2020 fuori concorso alla 77a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia e che dai primi di marzo 2022 è nei cinema italiani distribuito da Bim. La pandemia ne ha posticipato l’uscita in sala, poi lo scorso settembre è sopraggiunta anche l’improvvisa morte del regista all’età di 65 anni.

Nel corso della sua carriera, divisa tra cinema e teatro (Royal Shakespeare Company), Michell ha firmato alcune commedie di grande richiamo a partire da “Notting Hill” nel 1999, seguita dall’hollywoodiana “Il buongiorno del mattino” nel 2010 e “A Royal Weekend” nel 2012. Ma è probabilmente con “Il ritratto del duca” che l’autore ha messo a segno un’opera pienamente riuscita, capace di coniugare le regole della commedia inglese con il cinema di impegno civile; un film compatto, dinamico, coinvolgente, marcato da diffuso umorismo e acume.

La storia (vera). Inghilterra 1961, Kempton Bunton (Jim Broadbent) è un sessantenne con alle spalle diversi lavori, persi non per irresponsabilità bensì per contestazione: Kempton è infatti un uomo da sempre in prima linea contro le ingiustizie e le sue battaglie civili gli hanno causato non pochi problemi con i datori di lavoro. Per fortuna in casa c’è la moglie Dorothy (Helen Mirren), un punto fermo. La vita dei Bunton si complica quando Kempton sembra aver sottratto il ritratto del Duca di Wellington di Francisco Goya dalla National Gallery di Londra. Sia chiaro, non un furto a scopo di lucro, ma nuovamente un atto di contestazione: spingere il governo a rivedere la tassa televisiva, a esonerare dal gravoso pagamento i reduci di guerra, gli anziani e gli indigenti. Un’azione che porterà Kempton sul banco degli imputati.

Tra i punti di forza del film “Il ritratto del duca” anzitutto le interpretazioni di Jim Broadbent ed Helen Mirren: superlativi nel gioco di sfumature ironiche e drammatiche, i due abitano i coniugi Bunton con intelligenza, rispetto e tenerezza, tenendosi ben lontani dal ritratto macchiettistico. A dare poi sostanza alla commedia è lo sguardo di Roger Michell – che poggia su una brillante sceneggiatura firmata da Richard Bean e Clive Coleman –, la sua regia presente e ariosa, abile nel calibrare tempi comici e puntualizzazioni storiche con uno sguardo realistico di stringente attualità. Il film, infatti, offre un chiaro spaccato sociale, un invito alla coesione e solidarietà: il bisogno di essere prossimi, comunità, e non isole.“Il ritratto del duca” è senza dubbio consigliabile, brillante e adatto per dibattiti.

“Parigi, tutto in una notte”

Il cuore narrativo di “Parigi, tutto in una notte” (“La fracture”) corre lungo il sentiero battuto dal cinema di Ken Loach, dei fratelli Dardenne come pure di Stéphane Brizé. Parliamo del film scritto e diretto da Catherine Corsini, presentato in concorso al 74° Festival di Cannes (2021) e nei cinema italiani dal 10 marzo con Academy Two. Tratto principale di “Parigi, tutto in una notte” è dunque quello di una radiografia sociale drammatica, di grande realismo, uno sguardo spaesato all’interno di un Pronto soccorso di Parigi, uno luogo che diventa spazio di ritrovo non solo di malati, ma anche di ultimi e bisognosi. Accanto a loro, una notte, fanno ingresso da un lato i manifestanti feriti che hanno preso parte alla contestazione dei “gilets jaunes”, che hanno gridato in piazza al governo le iniquità lavorativa e sociali in cui versano; dall’altro i poliziotti, anche loro piegati, sfiniti, da turni massacranti. In ultimo, ma non meno importanti, i medici, gli infermieri e il personale sanitario tutto, che si muovono all’interno del Pronto soccorso in uno stato di perenne allarme, chiamati a fare molto di più quello che è previsto dalla loro professione. Sono un presidio di umanità in trincee di contrapposizione sociale.

La cosa che si apprezza di più del film di Corsini è questo sguardo che abbraccia in maniera comprensiva tutti i soggetti in campo:non segue una tesi precisa, non sposa una parte, ma racconta il travaglio degli ultimi.Tutti poveri disgraziati sulla stessa barca, mentre il palazzo, la politica, appaiono distanti. Lontani.

La regista si serve delle storie della borghese Raf (Valeria Bruni Tedeschi), del trasportatore Yann (Pio Marmaï) e dell’infermiera Kim (Aissatou Diallo Sagna, straordinaria!) per ancorare ancor di più il racconto, per amalgamarlo e attivare maggiori punti di relazione con lo spettatore. Inoltre, attraverso il personaggio vaporoso e ciarliero della Bruni Tedeschi la regista riesce a disinnescare la tensione bruciante della storia rendendola meno disturbante, ma di certo non meno dolorosa. Nell’insieme, al di là di soluzioni narrative non sempre efficaci o risolte, il film corre veloce con grande intensità e amarezza, restituendo un’istantanea di una parte della società (sempre più estesa, trasversale) che soffre un impoverimento e un isolamento allarmanti. “Parigi, tutto in una notte” è complesso, problematico e per dibattiti, indicato per un pubblico adulto.