Otium

‘Sul dolore’ di Paolo Cortaz: dalla parte di chi soffre

19 Mar 2022

di Marco Testi

Come porsi di fronte a quello che non può essere detto, compreso, spiegato e neanche immaginato se non passandovi attraverso? Come risolvere l’enigma della presenza del dolore nella storia, individuale e collettiva, dell’uomo? Sono domande tornate tragicamente nel nostro orizzonte a causa della nuova peste del Duemila e allo scoppio di una guerra che sta coinvolgendo migliaia di innocenti. Le immagini, durante la pandemia, di ospedali pieni costretti a dire no a casi gravi, e l’esperienza personale di chi ha avuto alcuni dei propri cari intubali, isolati, o vittime del Covid, lo sguardo sulle persone che rifiutate manu militari hanno vissuto tra boschi, montagne, vegliando su chi non ce l’ha fatta a sopravvivere a stenti e a gelo, cosa che è accaduta tra l’altro anche qui da noi, ospedali pediatrici bombardati, famiglie espatriate a forza di bombe e carri armati che improvvisamente si trovano in terre straniere e senza più una casa: sono queste le immagini che ora stanno cambiando l’universo mediatico contemporaneo, richiamandoci a quella che è la realtà del dolore, dopo decenni di esibizioni di addii più o meno amorosi, di nuove acconciature, di ritorni chirurgici alla giovinezza esteriore. E questo dovrebbe essere un avvertimento per tutti. Dietro i salotti e gli appartamenti finti “scoperchiati” per la goduria voyeuristica dei pomeriggi altrimenti desolatamente annoiati (incredibilmente simili al tedio meridiano cantato cento anni fa da Eliot) ci sono palazzi realmente scoperchiati dalle esplosioni, case distrutte cui non sarà possibile fare ritorno, come ha già narrato Saša Stanišić, di mamma bosniaca e di padre serbo, in Origini (Keller ed.). C’è un dolore nuovo, insomma, anche rispetto a quello raccontato da Paolo Curtaz nella recente riedizione di “Sul dolore. Parole che non ti aspetti” (San Paolo, 256 pagine, 16 euro), scritto prima della pandemia e della guerra ucraina, e però attuale in un mondo in cui epidemie, massacri, guerre, catastrofi naturali non sono mai mancati. E qui emerge ancora una volta la grande, lancinante domanda che si poneva anche Voltaire alle notizie che arrivavano, non così veloci come ai nostri tempi, sul terremoto di Lisbona, in una data paradossale che molti hanno letto come prova del non senso della storia umana: il giorno di tutti i santi del 1755.

Le domande che si sono poste l’illuminista francese sui quindicimila morti del terremoto, Hans Jonas e milioni di altre persone sulla conciliabilità di Dio e olocausto sono schiaccianti, eppure Curtaz un accenno di risposta condivisibile lo offre, al di là delle teologie e delle riflessioni ontologiche: molto del male di cui stiamo parlando viene dagli uomini. Anche non direttamente, come nel caso del Coronavirus, perché basterebbe leggere Spillover (Adelphi) di David Quammen, uscito prima dell’apparizione della nuova pestilenza, per capire come mode gastronomiche accoppiate a violenze inutili sugli animali, accumulati senza alcuna precauzione igieniche in gabbie una sopra l’altra abbiano innescato un processo di trasmissione da animale ad uomo, con il particolare che “non sono loro a cercarci: semmai siamo noi a cercare loro”. E così per quello che riguarda il massacro dell’ambiente, il taglio dei boschi, l’inquinamento globale, che non vengono da soli.

“L’uomo è chiamato a diventare protagonista del proprio destino, orientandosi verso il bene, giocando bene la libertà, combattendo contro la parte oscura che porta in se stesso”: nelle parole di Curtaz si coglie l’antico senso della scelta tra il bene e il male che dalle Scritture a Stevenson -e oltre- è stato l’autentico protagonista di una storia in cui massacri, inondazioni, cambiamenti climatici non sono piovuti dall’Olimpo, ma frutto delle scelte umane travestite da economia avanzata, velocità, centri commerciali, affari.

Curtaz mette in guardia anche da un’altra componente del dolore, quella di parlare dicendo cose scontate a persone colpite da sofferenze indicibili. L’ascolto silenzioso è forse una delle poche possibilità di rendere in qualche modo meno tragico ciò che l’agnello sacrificale che bussa alle nostre case porta dentro.

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