Dietro le rime amore-cuore, dietro le facili ironie, dietro gli attacchi iper-intellettualistici, Sanremo nasconde altro. “Lo portarono via in duecento, peccato fosse solo quando se ne andò” cantò nel 1976 Francesco De Gregori (anche De Andrè si ricordò di quel tragico 1967 in “Preghiera in gennaio”) rammentando che cosa significò l’esclusione dalla finale per Luigi Tenco. Eppure il carrozzone è andato avanti, grazie ad una gestione attenta a non restare troppo indietro con i tempi.Anche se con (in)consapevole ritardo. Quando cioè il fenomeno ha perso il suo impatto trasgressivo ed è diventato digeribile, con qualche piccolo sussulto per i papà e i nonni abituati al massimo a qualche audace minigonna, a qualche piccola sensualità tanto per non sembrare bacchettoni.

Ed è così che nel 1983 approda nel mar ligure uno dei campioni del rock progressivo con i Genesis, di cui era frontman variopinto e mascherato. E lì si vide chiaramente cosa c’era sotto, perché Peter Gabriel interpretò, con il suo gruppo tardo-punk, “Shook the monkey”, un po’ animalista e un po’ attacco alla gelosia come possesso, in play back: praticamente il rovesciamento di tutto quello che era stato e che per fortuna Gabriel continuerà ad essere, nel panorama della ricerca musicale planetaria.

Come d’altronde i Depeche Mode, ospiti di gran rilievo, e per la quarta volta, a Sanremo ‘23.

Se è per questo, nell’anno della contestazione e delle barricate, il palco nazional-popolare aveva visto l’esibizione di un gigante, uno degli artefici del passaggio tra spiritual, blues, jazz e canzone moderna. Perché nel fatidico Sessantotto Louis Armstrong non solo cantò al Festival, ma, tenetevi forte, era in gara. Visto che gli offrivano 32 milioni di lire, Satchmo pensò ad un intero concerto, e nessuno gli spiegò che si trattava di una canzone e via. Pippo Baudo fece qualche fatica a farlo uscire dalla scena.

Stavolta come ospite, nel 1996 a Sanremo, canterà Bruce Springsteen. Solo che lui si informa, e allora ecco le sue condizioni, prendere o lasciare: un solo faro, per il resto buio senza inquadrature maliziose e cerca-famosi o emozioni tra il pubblico, microfono, chitarra, tutto dal vivo e senza interviste. Anche perché la canzone, “Il fantasma di Tom Joad” era un omaggio a Furore, romanzo di Steinbeck dedicato alla gente che lasciava la propria terra alla ricerca di un destino migliore e di un pezzo di pane.

Ma, a parte altri incredibili presenze, chi in gara, chi ospite, David Bowie, Ray Charles, Sting (lo so, difficile da digerire, ma anche lui in playback), Cat Stevens, ora Yusuf Islam, Stevie Wonder, tra le canzoni in competizione ci sono stati autentici gioielli, a partire da “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano, anno 1966, anticipazione profetica della colonizzazione cementizia e della cancellazione della natura.

Nel 1971 sul palco risuonano le parole di “4 marzo 1943”, un tributo alle ragazze-madri che allevano coraggiosamente i propri figli, eseguita da Lucio Dalla e da uno dei primi gruppi beat italiani: l’Equipe 84.

Simone Cristicchi ha affrontato, nel 2007, con “Ti regalerò una rosa”, il tema della follia e dei manicomi, mentre il trio Morandi-Tozzi-Ruggeri con “Si può dare di più”  aveva invitato nel 1987  a non rimanere indifferenti di fronte alla fame, alle distruzioni, alle fughe da una non-vita.

Malika Ayane cantò nel 2015 “Adesso e qui (nostalgico presente)”, ispirata, soprattutto nel video, ad un film di Patrice Leconte, “La ragazza sul ponte”. La prova che una voce totale, calda e nello stesso tempo “spezia rara ed aspra” secondo Paolo Conte, può caricare di nuovi contenuti una storia vera e perciò ambigua, con quei “silenzi per cena” che va oltre, fino al dolore di una famiglia in cui non si parla e in cui si tocca con mano la sofferenza interiore.

Senza dimenticare che José Feliciano, nel 1971 aveva cantato, assieme ai Ricchi e Poveri, “Che sarà”, prova provata che anche la canzone popolare può cogliere la realtà dell’abbandono dei piccoli paesi, della triste necessità di andarsene via con il pianto in gola. E rimanere nell’immaginario canoro.

Sono solo pochi esempi, lo spazio è tiranno, di quello che Sanremo ha significato sopra e dietro le quinte di uno spettacolo che nasconde altro.