Intervista esclusiva

Fede e creatività: intervista al card. Matteo Zuppi

Il presidente della Cei ha posto l’accento sul fatto che “i cattolici non possono non essere accoglienti e la Chiesa deve stare in mezzo al mondo”

25 Mag 2023

di Chiara Genisio
A come accogliere, B come bellezza, C come Costituzione, D come donna. Sono alcune delle lettere capitali emerse dall’intervista con il cardinale Matteo Zuppi. Lo abbiamo incontrato nella sede romana della Cei, sorridente, nonostante l’agenda ogni giorno fitta di impegni e di incontri. Arcivescovo di Bologna dal 2015, Francesco l’ha creato cardinale nel concistoro del 2019 e scelto come presidente dei vescovi italiani nel maggio dello scorso anno. A fine marzo, all’apertura della sessione primaverile del Consiglio episcopale permanente ha voluto esprimere, ancora una volta, il suo “grazie” a Francesco per il decennale del pontificato. Ha poi tracciato lo scenario e le prospettive future della Chiesa in Italia, partendo dal “programma” del papa, dove la Chiesa del post-pandemia e del cammino sinodale si configura sempre più chiaramente come una “Chiesa missionaria”, con la priorità di diffondere una cultura cristiana.
Non possiamo dimenticare le immagini di Cutro dove sono morti più di 90 immigrati, tra cui 30 bambini. Cardinale Zuppi, in merito all’accoglienza c’è un prima e un dopo questo tragico evento?
«Me lo auguro, ma non ne sono sicuro. Perché l’abbiamo visto tante volte e senza troppa vergogna, senza autocritica e verifica; non c’è stato un prima e un dopo. C’è stato soltanto un prima. Perché ciò avvenga ci dev’essere una consapevolezza, una scelta, una determinazione di tradurre la commozione, la partecipazione dell’evento tragico in progetto. Sono dubbioso anche perché sono passati quasi trent’anni dalla tragedia al largo di Portopalo (1996), dove una carretta di mare affondò, causando la morte di almeno 283 persone. Doveva rappresentare un punto di svolta, invece rimane sempre solo un episodio. “Oggetto” di una politica che non sa guardare lontano, non sa costruire un sistema. Ma ciò riguarda tutti noi. È tempo di agire per dare risposte alle domande e ai problemi, e non di ulteriori dichiarazioni, che in genere producono solo altro distacco dalle istituzioni».
L’immigrazione è una questione epocale, eppure si ha l’impressione che neppure tutti i cattolici abbiano la stessa posizione sull’accoglienza…
«È vero. Siamo di fronte a una situazione epocale. Il Mediterraneo è per sua natura un luogo di immigrazione. Ora è epocale anche perché l’Europa – e quindi l’Italia – si ritrova a essere vecchia, non siamo mai stati così anziani come adesso. Dopo una continua crescita, ora siamo in declino. C’è una pressione che mette alla prova l’accoglienza. Ma i cattolici non possono non essere accoglienti, avendo un riferimento importante nella nostra carta costituzionale, che sono le opere di misericordia, l’identificazione del Signore nei forestieri, nei viandanti, nell’uomo sofferente. L’accoglienza non è materia facoltativa, richiede a tutti di impegnarsi e di fare qualche cosa. A cominciare dalla cultura. Per capire di chi stiamo parlando, perché la capacità di accoglienza è anche la conoscenza, su questo la Chiesa e i cristiani devono avere una profonda capacità di spiegare le storie, le caratteristiche, l’umanità dell’altro, perché non ci siano indifferenza, ignoranza o pregiudizio».
Eminenza, ha citato la costituzione per i credenti, ma lei ha anche scritto una lettera alla Costituzione italiana. L’ha fatto durante la pandemia, ed è stata l’occasione per sottolineare la necessità di ricostruire. Oggi la riscriverebbe uguale?
«Sottolineerei di più alcune cose».
Per esempio?
«Il senso della casa comune che la Costituzione ha fortissimo e, quindi, il legame che c’è tra la persona, la casa comune e il nostro Paese, che poi in fondo è proprio l’idea da cui è nata la Costituzione. La consapevolezza, per esempio, del Covid, ci deve spingere a capire che siamo sulla stessa barca e che queste sono le regole del nostro Paese».
Un Paese, però, che nelle ultime tornate elettorali ha visto come primo partito l’astensionismo. Tra loro ci sono anche molti cattolici…
«Presumo di sì. Non credo ci siano statistiche certe, ma possiamo presumere di sì, che ci sia questa indifferenza. Anche se vorrei augurarmi di no, perché il diritto/dovere di voto è fondamentale. I cristiani non possono vivere distanti dalla preoccupazione per la casa comune, devono essere attenti e partecipare».
Dalla nascita della Repubblica, con la dottrina sociale della Chiesa, c’è sempre stato un impegno alla formazione politica. Non pensa che, negli ultimi anni, sia venuta meno la formazione dei credenti all’impegno pubblico?
«Sicuramente rispetto ad altre fasi in cui c’è stata di più, questo è vero; ma è anche vero che questa è una formazione che non s’è mai interrotta, per di più con un’impronta di Francesco che ci rende attenti. Il suo messaggio è molto preciso: unire l’aspetto sociale con quello spirituale. A maggior ragione dobbiamo riprendere una capacità di leggere la storia, le situazioni, con la dottrina sociale della Chiesa e con l’ispirazione evangelica. Con una comprensione, quindi, attenta e profonda di quello che sta succedendo».
Oggi le persone hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni come lo Stato o la Chiesa, ma rimane centrale la figura del Papa. Come può la Chiesa-istituzione recuperare credibilità?
«Costruendo delle realtà umane. La Chiesa deve significare dei luoghi dove è più vivo il Vangelo e le parole che di volta in volta lo spiegano, l’accompagnano e ce lo fanno vivere. Dobbiamo costruire dei luoghi, delle case, delle famiglie dove il Vangelo si concretizza, si incarna. Dove i legami siano delle vere relazioni umane, anche affettive».
Lei è presidente della Cei da un anno. Sta girando per l’Italia incontrando le Chiese locali. Che cosa sta scoprendo che la rassicura di più? E che cosa, invece, più la preoccupa?
«In genere, trovo tanto desiderio di camminare insieme, di incontrarsi, di sentirsi di far parte di una comunità. Quello che mi preoccupa, qualche volta, è la disillusione, un affaticamento di situazioni che non riescono a guardare con fiducia e speranza al futuro, si sentono come di essere arrivati tardi all’appuntamento mentre io penso che dobbiamo dire: “non perdiamo l’opportunità”».
Tutto ciò rientra nel secondo anno del cammino sinodale con molte luci e ombre. Non ha l’impressione che non ci sia stata piena comprensione?
«Sì. È dipeso anche da una mancanza di abitudine. Più che altro perché il cammino sinodale vuol dire una consapevolezza, una autocoscienza in cui tutti quanti vengono coinvolti. Il fatto che sia proprio un cammino lo rivela ancor di più. E questo era proprio il desiderio, di non concentrarsi nelle strutture, ma nel camminare e, quindi, capire la sinodalità. Non con laboratori, non con categorie astratte, non con delle simulazioni di cammino, ma camminando. L’abbiamo imparato: c’è una certa fatica, perché a volte sembra inutile, altre volte desideriamo arrivare subito a una risposta, molte volte invece abbiamo misurato la situazione, la vita delle persone e ci siamo ritrovati».
La messa festiva è sempre meno frequentata, ma i fedeli si ritrovano ancora a matrimoni, funerali e battesimi. Sembra che ciascuno si costruisca un proprio palinsesto della pratica religiosa…
«Sì, credo che effettivamente sia una grande domanda, uno dei punti più importanti. L’eucaristia è centrale nella vita della Chiesa e nella vita dei cristiani. Dobbiamo ricostruire, cercare di far capire di più perché è importante andare alla messa domenicale, perché è un precetto. Ma poi dobbiamo curare di più le celebrazioni».
Lei pensa che potrebbe esserci più creatività all’interno della Chiesa anche nel vivere la quotidianità della fede?
«Vivere la fede con creatività me lo auguro sempre, lo Spirito è più creativo di noi e ci aiuta a esserlo. Anche se qualche volta proponendo liturgie cosiddette “creative” le abbiamo di fatto impoverite. Il problema vero della creatività è unire la vita con il mistero e la presenza di Cristo. Se non c’è anche una comunità è difficile che questo possa avvenire. Quando la celebrazione acquista una sua attrattività, una sua intensità? Quando c’è anche una comunità di persone, e non è uno spettacolo cui vado ad assistere».
Ci sono vescovi che parlano di una Chiesa minoritaria. Il rischio è quello di una Chiesa d’élite?
«Certo, con il rischio di essere minoritari e neppure creativi, come indicava Benedetto XVI. Rischiamo di diventare gnostici o pelagiani, finiamo per usare le categorie che Francesco indica come due rischi esiziali per la Chiesa. E qualche volta anche Chiesa dei catari, cioè i guri che pensano di difendere la purezza della Chiesa isolandola e difendendola dal mondo. La Chiesa non si deve difendere dal mondo, anzi è chiamata a essere in mezzo al mondo. Lo Spirito ci protegge dal male, motivo per cui non dobbiamo avere paura. La Chiesa trova sé stessa; questa è una delle chiavi più importanti di Francesco: la Chiesa trova sé stessa in mezzo e non fuori. Andando verso e non chiudendosi».
Come si intercettano i giovani?
«Facendo delle cose belle, autentiche, annunciando il Vangelo e che cosa il Vangelo chiede a loro e a noi. Qualche volta abbiamo un’idea troppo lavoristica oppure di sola animazione. Ma il Vangelo non è animazione, ma ci anima perché ci riempie di contenuto, di passione. Questo sì».
Come immagina la Chiesa del futuro, avrà più un volto di donna?
«Deve avere un volto più di donna. Anche con tante responsabilità di donne. L’immagine più chiara per la Chiesa in Italia è quella della moneta spezzata che il Papa ha usato a Firenze: “La Chiesa madre ha in Italia metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati”. Alcune volte non ce ne rendiamo conto e pensiamo che gli altri non abbiamo la loro metà. Una Chiesa di popolo, in cui c’è tutto, in cui tutti hanno la metà e ognuno ha la metà dell’altro. E quindi una Chiesa madre che sa, con la passione della madre, andare alla ricerca dell’altra metà».
Eminenza, un’ultima domanda personale. Come inizia e finisce la giornata?
«Inizio pregando e la finisco pregando (sorride). Forse la inizio con un po’ meno di sonno».
* intervista rilasciata per ‘La vita pastorale’ del mese di maggio e messa a disposizione delle testate aderenti alla Fisc
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