Il grido di dolore di Francesco
Da diverso tempo, è la “voce di uno che grida nel deserto”. Il grido, di angoscia, di dolore, di sofferenza, ma anche di contestazione, di dissenso, di protesta, di Jorge Mario Bergoglio traccia il discrimine fra la politica di devastazione, che le forze di difesa israeliane, sulla base degli ordini di Benjamin Netanyahu, stanno conducendo sul suolo del Libano, e lo stato d’animo che sta sperimentando la gran parte, forse la schiacciante preponderanza, dell’opinione pubblica mondiale. In una delle ultime udienze generali, papa Francesco ha parlato di una “terribile escalation” che la comunità internazionale dovrebbe fermare. Dopo, di slancio, ha aggiunto: “È inaccettabile!”. E, nel frattempo, il numero dei morti si avvicina paurosamente alla cifra di mille in tutto il Libano. C’è una ambiguità, che si rispecchia di continuo nei confronti e nei dibattiti televisivi, ossia che la scena sia suddivisa fra pro-israeliani e pro-palestinesi. No, davvero non è così. Da un lato, ci sono i sostenitori di una pacifica convivenza con pari dignità fra lo Stato d’Israele e lo Stato di Palestina, fra il popolo israeliano e il popolo palestinese. In Italia, in Europa, nella maggior parte del mondo, da sempre, sono sicuramente la maggioranza. E nel mondo, la maggior parte degli stati considera come sottintesa la esistenza di Israele come di ogni altro paese. Senza considerare, poi, che già da tempo molti paesi arabi o con una popolazione che appartiene alla religione musulmana hanno già rapporti “civili” con la Stella di Davide. Lo Stato d’Israele e il popolo israeliano non sono minimamente messi in discussione, tanto quanto non può essere confuso il primo ministro Benjamin Netanyahu – che, in relazione alle diverse convinzioni, è ostaggio della maggioranza di governo oppure tiene lui in ostaggio tutta la compagine – con i cittadini di Israele. Marchiare di antisemitismo, antigiudaismo o antisionismo chi accusa Netanyahu è una vera e propria mascalzonata. Questo da un lato e dall’altro? Sarebbe sicuramente riduttivo ricondurre il tutto soltanto al proposito di sopravvivenza politica di Netanyahu. Tutto questo non è solamente il frutto e lo strumento di un uomo proteso all’affermazione di sé stesso, non ha le proprie origini solo nell’ambizione di un uomo che cerca il successo per il successo, in uno sforzo bellico continuo. Perché è anche vero che Netanyahu è sostenuto da una coalizione politica, sociale e religiosa categorica: un’alleanza ultra-conservatrice, ultra-nazionalista, ultra-ortodossa, ultra-suprematista. Un blocco violento, fanatico e sostanzialmente razzista nel senso che considera i palestinesi una etnia da scartare, un popolo non meritevole del diritto di cittadinanza nella lingua di terra che va dal fiume al mare, dal Giordano al Mediterraneo. Il fine è quello di tenere questa gente assoggettata oppure di scacciarla fisicamente da quei territori. È questa alleanza suprematista che – dopo l’incursione di Hamas del 7 ottobre – si è lasciata andare alla più brutale, crudele e disumana reazione contro i palestinesi della striscia di Gaza. Massacrare decine e decine di migliaia di persone, bombardare edifici sacri e luoghi di culto, edifici scolastici e luoghi di primo soccorso e di cura, bombardare veicoli di assistenza di cui era preannunciato e concordato il percorso, colpire giornalisti con la scritta “press” a caratteri cubitali e lontani da posizioni di scontro, affamare e indebolire la popolazione è fuori da ogni quadro etico e giuridico internazionale. Non si può bombardare una chiesa se nel suo interno si nasconde un capomafia, non si può bombardare un edificio scolastico perché all’interno si nasconde un terrorista, non si può bombardare un ospedale perché c’è un violentatore. E a ciò si assomma la lunga scia di violenze, cicliche e ricorrenti, alle quali beduini e palestinesi sono esposti da oltre un anno in Cisgiordania. È una vera e propria strategia del terrore con aggressioni, incendi, uccisioni e distruzioni. Sono gli stessi attacchi violenti e disumani a cui erano esposti, nei secoli passati, i villaggi popolati dagli ebrei in Europa orientale. Ed è drammatico che, a distanza di secoli, queste azioni siano compiute da gruppi di israeliani. Tanto quanto è forse ovvio che questa violenza senza limiti abbia bisogno della assenza di testimoni: ecco perché a inviati e corrispondenti di guerra, tanto quanto a fotoreporter e cameraman, è vietato lavorare in Israele e, adesso, anche in Cisgiordania. Ma è fortemente significativo che in Occidente si dica che le uccisioni a in Libano e il ferimento di tante persone con l’esplosione dei cercapersone se fatto da altri sarebbe stato definito un attacco terroristico. Netanyahu, però, se ne frega del diritto internazionale. La comunità internazionale ha capito fin troppo bene che, data la sproporzione delle forze militari, il blocco suprematista di Netanyahu non lotta per la esistenza e la sicurezza della propria nazione, ma per il dominio sui palestinesi e il dominio terrorizzante sugli stati vicini. Il mondo sa che la Knesset ha votato una risoluzione per sconfessare la nascita di uno Stato palestinese. Ecco, non si tratta di pensare un dopo Gaza o un dopo Libano: ora si tratta di determinare – oggi e non domani – il riconoscimento e la costituzione della Palestina, dato che Hamas, Houthi, Hezbollah sono i sintomi violenti di un nodo mai sbrogliato. E quando il Papa ripete di continuo “Palestina e Israele” indica l’unica strada realista. Ma è la “voce di uno che grida nel deserto”. In questa guerra, il più valido dei complici è il silenzio, corresponsabile e favoreggiatore.