Venti di guerra

Ma davvero investire sulla guerra è l’unico modo di salvare il Siderurgico?

02 Lug 2025

di Silvano Trevisani

Che farne dell’ex Ilva? Incontri a vari livelli, ministeriali, sindacali, interistituzionali si susseguono serrati in questi giorni. Avvengono su vari tavoli: il governo media, in modo un po’ confuso, sull’accordo di programma, i sindacati sono alle prese con la tenuta dei posti di lavoro e la cassa integrazione. L’ultimo ieri a Bari con la mediazione di Michele Emilliano. Gli enti locali devono barcamenarsi tra esigenze sociali e ambientali da una parte, e tenuta dell’occupazione dall’altra, che può passare solo attraverso l’ambientalizzazione. Che però appare, allo stato attuale, come una chimera più che una certezza, legata com’è a condizioni altrettanto capestro, come l’installazione di un rigassificatore (galleggiante?) per la produzione di “preridotto”. Che si potrebbe acquistare già “tutto fatto”.

Ma negli ultimi giorni sta prendendo spazio, a vari livelli, l’idea che lo stabilimento siderurgico si può salvare utilizzando le enormi risorse previste per gli investimenti militari. Ne ha parlato con convinzione la Confapi, che propone una visione basata su tre pilastri: “la nazionalizzazione dello stabilimento e l’attivazione del Golden Power, il finanziamento della riconversione industriale attraverso i fondi (800 miliardi di euro) del piano europeo ReArm Europe, la valorizzazione dello stabilimento di Taranto come asset strategico per settori chiave – automotive, navalmeccanico e difesa – con una produzione di acciaio ad alta qualità, inclusi gli acciai “balistici”. In questo contesto, Taranto può e deve giocare un ruolo centrale come polo strategico europeo per l’acciaio destinato anche al comparto difesa”.

Ma la proposta vanta già un importante fautore: Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e imprenditore siderurgico, che suggerisce esplicitamente di inserire Acciaierie d’Italia, all’interno del grane comparto europeo del riarmo accedendo ai fondi della Difesa.

Immediata la reazione delle associazioni ambientaliste, a cominciare da Andrea Franchi, presidente del Tarentum Forum Aps, secondo cui “la sicurezza europea non può passare sul cadavere di una città”.
Ma è fin troppo evidente che se davvero l’Italia spenderà cento miliardi l’anno per riarmarsi contro nemici inesistenti e che proprio l’eccesso di armi potrebbe “materializzare”, e deciderà di produrre in casa almeno una parte delle sue attrezzature di morte, l’acciaio sarà indispensabile, quindi… C’è la possibilità concreta che la riscoperta strategicità dello stabilimento passi proprio per il ReArm Europe, idea orribile e del tutto contraria alla strategia della pace.

Per Taranto non sarebbe altro che il ritorno al leit motive della sua economia storica: la guerra. Che ha prodotto gli stabilimenti della Marina, l’Arsenale Militare, gli Stabilimenti navali che utilizzavano, molti ormai non ne hanno più memoria, piccole fonderie attive sul bacino della Circummarpiccolo.

Per altro va sottolineato che l’economia di guerra non ha mai portato bene alla città che, ad esempio, è sotto organico di oltre mille unità proprio in quelle istituzioni militari su cui ha fondato la propria economia. E che, in maniera ricorrente, ha presto dismesso e delocalizzato le produzioni industirali appena le guerre finivano. Vedi la storia dei Cantieri navali, vedi il trasferimento a La Spezia, Monfalcone e altrove di costruzioni e riparazioni navali.

La storia insegnerà qualcosa? Forse no. La presidente Meloni, infatti, ha citato l’antico detto latino attribuito a Vegezio (in realtà greco): “Si vis pacem para bellum”, ma dimenticando, o forse non ben conoscendo, il senso reale della frase che è semplicemente questo: “Se vuoi la pace scendi in guerra”, concetto meglio esplicitato da Cornelio Nepote: “La pace si ottiene con la guerra”. E ancora meglio da Cicerone. Tutta gente che non ha mai investito molto sulla pace.

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