Tregua in Palestina

Israele-Hamas, Graglia: “La tregua è un inizio, ma non ancora un accordo di pace”

ph Ansa-Sir
13 Ott 2025

di Gianni Borsa

“L’accordo tra Hamas e il governo israeliano, patrocinato dalla Presidenza statunitense e portato avanti dai negoziatori Steve Witkoff e Jared Kushner, è stato sicuramente un successo, anche se alcuni punti rimangono ancora in sospeso, e non si tratta di punti insignificanti”. Una analisi degli accordi raggiunti in Egitto è affidata a Piero Graglia, professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali e presidente del corso di laurea in Scienze internazionali e istituzioni europee dell’Università degli Studi di Milano.

Piero Graglia  – foto Sir-P. G.

Professore, l’accordo e la tregua reggeranno?
Il primo aspetto da verificare è la tenuta interna del governo di Netanyahu, che vede significative componenti (tra quelle più retrive ed estremiste) assolutamente contrarie all’accordo e soprattutto alla cessione degli “ostaggi” che Israele ha preso dalla Striscia di Gaza come contropartita per quelli in mano ad Hamas dopo la strage del 7 ottobre 2023. I due ministri Ben Gvir e Smotrich hanno già dichiarato che sono assolutamente contrari a questa cessione, anche se poi tale opposizione sembra essere rientrata. Non sarebbe comunque la prima volta che il governo israeliano fa marcia indietro rispetto a un accordo concluso, cambiando le carte in tavola e, soprattutto dopo la comparsa di Trump, questo atteggiamento è di fatto diventato una cosa tollerata in sede internazionale. La frase pacta sunt servanda della tradizione dell’antica Roma è sempre meno valida. Non resta che aspettare e vedere quale sia l’evoluzione della situazione interna a Israele, dove molte sono le forze che vedono questo accordo, e le concessioni ad Hamas, come eccessive.

E il secondo aspetto?
Il secondo elemento in discussione è il time table militare israeliano, con le Idf (Forze di difesa israeliane) che hanno una significativa tradizione di indipendenza rispetto al potere politico a Tel Aviv. In altre parole, è successo nella storia israeliana che i militari abbiano “interpretato” le direttive politiche con una certa libertà; peraltro la stessa esperienza dell’occupazione in Cisgiordania ha visto negli ultimi cinquant’anni il potere militare surrogare l’autorità civile nei territori, investendo i militari di compiti che non dovrebbero avere.

La tregua stabilita con l’accordo è fragile e quindi bisogna fare attenzione che tale condizione di fragilità non venga resa ancora più precaria da iniziative dell’elemento militare prese in autonomia (tipo una risposta istintiva a eventuali provocazioni da parte palestinese che rimetterebbe in discussione tutto l’impianto dell’accordo).

Dopo la firma in Egitto si sono registrate vere e proprie – e comprensibili – espressioni di esultanza, in Palestina, in Israele e in tanti Paesi. Se ne comprendono le ragioni, ma l’accordo non appare quanto meno incompleto?
Da molte parti questo accordo viene definito quasi un miracolo, però bisogna essere coscienti che al momento i 20 punti dell’accordo sono soltanto la base di un negoziato che ancora deve svolgersi. Troppi elementi sono oscuri: gli attori che daranno vita alla preconizzata autorità amministrativa che dichiaratamente deve essere, da parte palestinese, “apolitica”. Per inciso, come si possa pretendere che un’autorità che gestisce la vita pubblica sia “apolitica”, è oscuro. Si tratta del sempreverde mito del tecnicismo in politica che ha fatto sicuramente più danni e più vittime dei vantaggi che ha portato, a ogni latitudine e in ogni luogo in cui è stata applicata questa opzione. Oltre agli attori dell’autorità amministrativa ci sono poi i soggetti economici che dovrebbero intervenire a Gaza, dei quali non si sa assolutamente nulla, così come non si sa nulla del futuro del resto dei territori che dovrebbero costituire il futuro stato della Palestina così come negoziato a Oslo all’inizio degli anni ‘90. In altre parole, Gaza potrà sicuramente ricostituirsi e fiorire grazie a iniezioni di fantomatici capitali esteri, ed è opinabile, ma per il momento non ci sono elementi per negarlo, che Israele non vorrà interferire col suo futuro. Ma che ne sarà della Cisgiordania, sbocconcellata negli anni dai continui insediamenti israeliani fin sulle rive del Giordano? Che ne sarà delle enclave più significative per la popolazione palestinese come le città di Jenin, Ramallah, Betlemme che Israele non fa mistero di voler comprendere in una futura, completa annessione della West Bank?

Però le armi ora dovrebbero tacere…
Insomma, è giusto gioire del fatto che perlomeno siano cessate le ostilità e il massacro di civili, senza dimenticare che per una parte degli israeliani nessun civile a Gaza, neppure i lattanti, è innocente. Ma non bisogna neppure investire emotivamente in maniera eccessiva in questo accordo, che al momento si configura come una temporanea decisione comune di tregua, ma non ha né le caratteristiche né la forma dell’accordo di pace. Forse l’ego del presidente statunitense richiede una entusiasta gratificazione da parte dell’opinione pubblica mondiale per questo risultato, importante ma interlocutorio; chi ha responsabilità pubbliche ha però il compito di non prendere in giro l’opinione pubblica e soprattutto non prendersi in giro da solo.

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