“Non si finisce mai di prendersi cura”
Alla Santa Rita di Taranto un incontro promosso dall’Associazione medici Cattolici Italiani (Amci) sulla persona nella malattia avanzata
Il 25 novembre scorso, nella parrocchia Santa Rita, si è svolto un incontro coinvolgente promosso dall’Amci (Associazione medici cattolici italiani) di Taranto dal tema “Non si finisce mai di prendersi cura. Uno sguardo sulla persona con malattia avanzata”.
Due sacerdoti e due medici hanno offerto la loro testimonianza, intrecciando esperienza professionale e vissuto umano.
Il convegno ha offerto uno sguardo lucido e profondamente umano sul tema della malattia avanzata. Ne è emersa una visione comune: curare significa amare, essere presenza, restituire speranza. Amore è stata la parola chiave di tutto l’incontro.
Il primo relatore, mons. Gino Romanazzi, assistente diocesano Amci Taranto, ha riportato il problema della persona malata all’esigenza propria dell’uomo e della donna in quanto creature bisognose del rapporto col loro Creatore: tutti hanno fame e sete di sentirsi amati. Ad esempio, per un sacerdote portare la Comunione a una persona malata bloccata in casa significa consentirle di sentirsi amata.
Dopo di lui, don Cristian Catacchio, direttore ufficio diocesano Pastorale della salute, ha ricordato come il bisogno di amore non riguarda solo chi soffre, ma anche chi assiste, chi accompagna, chi vive accanto alla fragilità. Eppure, la famiglia, e il caregiver in particolare, sono spesso lasciati soli. La società moderna sta drammaticamente perdendo la capacità reale di prestare soccorso a malati e famigliari, di offrir loro cura e accompagnamento.
Al centro del dibattito è emersa infatti la consapevolezza che ogni malato, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, ha un bisogno profondo di vicinanza e di speranza. Il ruolo e la vocazione del medico hanno rappresentato il fulcro dell’intervento centrale del convegno, quello del prof. Filippo Boscia, past president nazionale Amci, il quale ha portato la sua esperienza maturata come medico nell’ambito della ginecologia e ostetricia a rischio. Il medico, per lui, è il primo veicolatore di umanità: attraverso uno sguardo, una presenza, una parola capace di accogliere e sostenere la persona anche quando non è più possibile guarirla dalla sua malattia. Mille strumenti tecnologici non sostituiscono una carezza o la presenza di una comunità familiare. La ripresa della speranza e del desiderio di vivere, per un malato, sono sempre possibili. E, affrontando il tema delle Dichiarazioni anticipate di trattamento, il professore ha sottolineato che il desiderio di “non soffrire” espresso quando si è in salute difficilmente equivale, nella fase finale, al desiderio di morire: anche in un malato terminale può rimanere il desiderio profondo di continuare a vivere, magari per un ultimo evento atteso, un affetto, un traguardo imminente di una persona amata.
Da grande conoscitore delle dinamiche sociali quale è, Boscia ha denunciato anche il fenomeno del “subappalto dell’affettività”, frutto di una società che delega tutto – dall’utero all’allattamento, fino alla cura dei figli piccoli – e che oggi fatica a sostenere la fragilità degli anziani. Grazie ai progressi della medicina, il “morire” è ormai un percorso spesso molto lungo, e la casa potrebbe essere il luogo naturale dell’accompagnamento; ma la crisi demografica, la carenza di risorse economica e la conseguente dimensione via via più ridotta delle abitazioni rendono davvero difficile se non impossibile garantire l’assistenza domiciliare. Siamo in un’epoca – constata con amarezza il professore documentando ogni affermazione con esempi di vita reale – tristemente e tragicamente caratterizzata da barbarie sociali.
La sua denuncia si è poi estesa alla trasformazione del linguaggio sanitario: il paziente è diventato “utente”, l’ospedale “stabilimento di cura”, il medico “operatore sanitario”. Ma noi non possiamo, non vogliamo, come vorrebbero invece molti politici, trattare anche la sanità e la sofferenza alla stregua di un’azienda, col bilancio dei profitti e delle perdite: in questa logica, la persona malata finisce per sentirsi un peso e di conseguenza agognare l’arrivo della fine. La medicina – ha ribadito – non può ridursi a contabilità: deve tutelare ogni vita, senza discriminazioni.
L’ultima relazione, quella del dr. Mariano Bruni, specialista in cure palliative, ha puntato sul bisogno di coinvolgere pienamente il malato terminale nella conoscenza del suo stato e nelle decisioni riguardanti il decorso della sua malattia. La mancanza di comunicazione col paziente – quella che il dottore chiama la congiura del silenzio -, che è la più facile e la più comune delle prassi quando una malattia è diventata inguaribile, genera solo isolamento e ulteriore sofferenza. Al medico spetta l’arduo compito di mettersi in discussione e interrogarsi sulla propria condizione umana: solo e soltanto così potrà sedersi accanto al malato e dirgli, da persona a persona, che la morte sta sopraggiungendo. Del resto, quello di cui una persona molto malata ha paura, afferma il dottore forte di una pluriennale esperienza nel campo delle cure palliative, non è la morte, bensì l’abbandono e la sofferenza. Per questo le cure palliative, diritto tutelato dalla legge, mettono al centro il bisogno della persona e non la malattia.
Qual è l’insegnamento nuovo che ci portiamo a casa da questo convegno? Che la società può diventare sempre più efficiente, ma se perde la capacità di accogliere la fragilità, perde la sua anima. E che noi, uomini e donne del nostro tempo, qualunque sia il nostro ruolo sociale e la nostra condizione di vita, stiamo rischiando di abdicare alla nostra essenza umana senza nemmeno accorgercene. Vogliamo invece riappropriarci della capacità donataci dal nostro Creatore di amare e guardare l’altro così come anche noi desideriamo nel profondo essere amati e guardati.

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