Chiedi chi erano i Miami Showband
 
                Il segreto per scrivere di vicende antiche è quello di incominciare dalla fine, dalla parte più recente, nella speranza che, in qualche angolo remoto della memoria, ci sia almeno un minimo ricordo. L’accordo del Venerdì Santo fu sottoscritto a Belfast – la capitale dell’Irlanda del Nord – il 10 aprile del 1998 dal premier del Regno Unito Tony Blair e da quello irlandese Bertie Ahern: fu quello che, ufficialmente, concluse le ostilità in quella terra al di là del North Channel. Quelle ostilità erano durate oltre trenta anni, ma le loro radici erano antiche. Alla base dei rancori, la scissione territoriale, stabilita nel 1921, in base alla quale l’Irlanda si sarebbe estesa sulla totalità del territorio insulare, tranne le sei contee a maggioranza unionista e protestante nel Nord, le quali sarebbero restate parte del Regno Unito, pur avvalendosi di una forma di auto – governo. Tale assetto fu contrastato dai nazionalisti cattolici, favorevoli alla annessione delle sei contee dell’Ulster alla Repubblica di Irlanda. Temendo che i propositi repubblicani producessero un ribaltone, gli unionisti, a capo del governo autonomo, concretizzarono delle politiche sempre più discriminatorie per indebolire la capacità di reazione dei nazionalisti. La tensione cominciò ad aumentare alla fine degli anni sessanta e crebbe sempre più negli anni seguenti: fino al 1998 le pagine di cronaca dei mezzi di comunicazione e di informazione del nostro Paese riportarono più di un centinaio fra tafferugli, sequestri di persona, scontri, omicidi mirati, esecuzioni sommarie, linciaggi, incendi dolosi, autobombe, conflitti a fuoco, imboscate, atti terroristici, attentati dinamitardi, assedi ed eccidi, addirittura al di fuori dei confini. Il bilancio di quel periodo fu più che pesante: si stimò in alcune migliaia di morti, fra civili, forze di polizia e forze armate (nordirlandesi e britanniche), appartenenti alle organizzazioni paramilitari unioniste da un lato e nazionaliste dall’altro. C’è una vicenda, quasi dimenticata, della quale giovedì prossimo ricorre il cinquantesimo anniversario: quella del gruppo musicale irlandese – era venuto alla luce a Dublino – “The Miami Showband”. Molto popolare sia fra i cattolici che fra i protestanti, la band suonava regolarmente per il pubblico su tutti e due i lati del confine fra Irlanda e Ulster ed era celebre fra i giovani di quel tempo come i Beatles irlandesi. Il gruppo era fatto da sei giovani: quattro membri della band provenivano dall’Ulster, due dei quali erano cattolici e due protestanti. La sera del 30 luglio 1975 si esibì in una località dell’Irlanda del Nord: al termine del concerto, uno dei componenti decise di passare la notte nella casa dei genitori, poco lontana, mentre gli altri si misero in viaggio, su un minibus, per rientrare a Dublino. Nel viaggio, la band fu fermata a un finto posto di blocco militare da uomini armati, vestiti con le uniformi dell’esercito britannico. Fu loro ordinato di uscire dal veicolo e di mettersi in fila sul ciglio della strada, voltandosi di spalle, mentre perquisivano il furgone. Quegli individui erano, in realtà, membri di una organizzazione paramilitare unionista: in due provarono a nascondere una bomba con timer nell’abitacolo ma il dispositivo esplose prematuramente, ammazzandoli. Gli altri uomini armati iniziarono, perciò, a sparare ai membri della band ammazzando il cantante Fran O’Toole, il trombettista Brian McCoy e il chitarrista Tony Geraghty. Questa vicenda sconvolse l’Irlanda e mise a dura prova le relazioni anglo-irlandesi al punto che la notte successiva all’attacco, l’ambasciatore britannico fu convocato per ascoltare i forti sentimenti del governo irlandese riguardanti l’uccisione dei tre membri della band: si reputava che il governo britannico non facesse abbastanza per fermare gli omicidi mirati nell’Ulster. Tre dei responsabili, a seguito di indagini e commissioni di inchiesta, furono condannati all’ergastolo ma furono liberati dopo l’accordo del Venerdì Santo. Ma, nel dicembre del ’21, l’Alta Corte di Belfast condannò il ministero della Difesa inglese e la polizia dell’Ulster a risarcire le vittime della strage, riconoscendo molto chiaramente la collusione fra forze di sicurezza e paramilitari unionisti. I giudici fissarono un risarcimento complessivo pari a un milione e mezzo di sterline per i sopravvissuti e per i familiari delle vittime di quel 31 luglio del 1975. Quella strage fu il caso più paradigmatico della guerra sporca, che vide il coinvolgimento delle forze di sicurezza britanniche in omicidi indiscriminati e operazioni sotto copertura contro civili irlandesi in quei trenta anni. Nel 2012, spettò all’allora primo ministro inglese David Cameron denunciare l’esistenza di “un livello impressionante di collusione” fra lo Stato britannico e i paramilitari unionisti dell’Ulster. Ma la strada verso la giustizia per decine di casi irrisolti relativi alle ostilità in quella terra al di là del North Channel è tutta in salita. Ma oggi? “È come brace che cova sotto la cenere” ci rispose venti anni fa l’amico Kieran, in perfetto italiano, avendo studiato in Italia. Le tensioni rimangono un tema sensibile, soprattutto a causa della crisi economica, ma la strada verso la stabilità economica e sociale è davvero molto lunga ed è resa faticosa dalla eredità delle ostilità e dalla divisione culturale, ancora molto presente. Ancora oggi l’Ulster è un caleidoscopio di rivalità, rappresentato a Belfast da varie comunità che, da un lato della via, fanno sventolare la bandiera tricolore della Repubblica di Irlanda e, dall’altro lato, esibiscono la Union Flag, simbolo della identità britannica. Rivalità che trovano espressione nei bordi dei marciapiedi dipinti di verde, bianco e arancio o in rosso, bianco e blu, a seconda se le comunità sono nazionaliste o unioniste. O in sfilate di bande musicali, fra due cordoni di persone che agitano le bandiere britanniche, accompagnate dai rappresentanti delle logge orangiste per ricordare che, nel 1690, Guglielmo di Orange vinse la battaglia di Boyne. “Bisogna avere pazienza!” disse il caro Kieran, facendo da guida a chi scrive. Non stiamo meglio, noi: c’è chi non perde occasione per fare il saluto romano.
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