Il Taranto ritrova nel pubblico la sua arma migliore

29 Nov 2021

di Paolo Arrivo

Prima il risultato, poi il bel gioco. Il Taranto che ha spezzato il break negativo tornando alla vittoria, dopo le due sconfitte consecutive inflitte in trasferta dall’Avellino e dal Monopoli, si è riscoperta squadra non solo determinata, ma anche cinica. Perché col Catania è stato capace di capitalizzare le non molte occasioni da goal prodotte in ben novantotto minuti di gioco. Quella vittoria strappata all’ultimo respiro ha fatto esplodere di gioia lo stadio Erasmo Iacovone, domenica scorsa, riaccendendo l’entusiasmo in riva allo Jonio. L’obiettivo adesso è crescere ancora. Confermarsi, in primo luogo: ribadiamo che agli uomini allenati da Giuseppe Laterza non si può rimproverare proprio nulla, per quanto stanno dimostrando in questa stagione, al netto di qualche piccolo e fisiologico passaggio a vuoto. La tifoseria lamenta l’assenza di un attaccante di peso. Ovvero del cosiddetto bomber. Però, sebbene non abbiano nell’attacco il loro reparto migliore, contro il Catania gli ionici sono stati capaci di realizzare di tre goal. La difesa funziona sempre a dovere – i siculi, bravissimi e sfortunati, a dire il vero (non avrebbero rubato nulla se non fossero tornati dal capoluogo ionico a mani vuote), l’hanno bucata con una rete rocambolesca e con un calcio di rigore. L’imperativo da ripetere come un mantra è continuare a pensare alla sopravvivenza nella categoria. Ma, a questo punto, non si può sottovalutare la qualità del roster: come ha dichiarato l’ex tecnico Michele Cazzarò, che continua a seguire e a scommettere sugli ionici, il Taranto ha giocatori di spessore, a cominciare da capitan Marsili. Che viene riconosciuto come leader, trascinatore, dentro il campo e non solo.

Nel prossimo turno, nel posticipo di lunedì sera (diretta Rai Sport), i rossoblu dovranno vedersela con la Juve Stabia in trasferta. Una formazione da temere. Tanto che, nella 15esima giornata, ha conquistato il pari sul campo del forte Catanzaro. Il Taranto farà del suo meglio per non arrestare la propria corsa. L’auspicio è che, a prescindere dall’esito del match, possa poi ritrovare i quasi cinquemila spettatori che lo hanno letteralmente sospinto all’ultima vittoria: credendoci fino in fondo, gli stessi avevano previsto il goal, prima che il capitano battesse il corner, nell’azione risolutiva. Magie che emozionano e fanno tanto bene al cuore. Immagini da rivedere ancora. Considerando che le gioie e le delusioni si alternano nel mezzo di un lungo cammino. Si compensano, in qualche modo: alla sconfitta immeritata subita sul campo dell’Avellino ha fatto seguito il successo, forse immeritato, sul Catania per 3-2. Quella non è stata una partita qualsiasi. Per i motivi che conosciamo tutti, risalenti al 9 giugno 2002… Ebbene, quell’incontro speciale può essere preso a modello per il prosieguo della stagione: va preservato lo spirito battagliero, l’alta motivazione, anche la capacità di reagire, perché si possa fare di ogni partita un capolavoro.

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Con un trapano e un avvitatore

29 Nov 2021

di Irene Argentiero

L’idea di realizzare delle “little home” – delle case in miniatura – per i senzatetto è nata 5 anni fa a Colonia al fotografo 44enne Sven Lüdecke

 

In Germania vivono più di 56mila senzatetto. Il quarto rapporto sull’esclusione abitativa, pubblicato lo scorso anno dalla Feantsa e dalla Fondation Abbé Pierre, stima che negli ultimi 10 anni il loro numero sia aumentato del 150%. Nella sola città di Berlino sono oltre 10mila le persone che vivono per strada e trascorrono la notte all’agghiaccio, nei pressi della stazione, nei parchi, rannicchiati su una panchina o – quando piove – al riparo sotto le pensiline delle fermate degli autobus. Impossibile non vedere questi invisibili. Molti di loro un tetto ce l’avevano. Così come un lavoro. Ma poi le alterne vicende della vita li hanno fatti finire sulla strada, dove ogni giorno devono trovare il modo per sopravvivere.

L’obiettivo di Sven era quello di realizzare delle case in miniatura da mettere a disposizione dei senzatetto, per garantire loro un luogo caldo, protetto e riparato, dove potersi sentire a casa. Mini-abitazioni in legno mobili, montate su pallet con tanto di rotelle, di 3,2 metri quadrati.

La prima “little home”, Sven l’ha costruita lui stesso, a sue spese, con le sue mani e senza un grande progetto. Quell’idea spontanea ha raccolto fin da subito così tanti consensi, che 100 giorni dopo la prima “little home” è stata creata l’associazione “Little Home e.V.”.

In 5 anni, il progetto partito da Colonia – che molti avevano bollato come utopistico – è arrivato in altre 20 città tedesche: Bonn / Siegburg, Düsseldorf, Leverkusen, Paderborn, Hamm, Münster/Coesfeld, Berlino, Bernau (nei pressi di Berlino), Amburgo, Monaco di Baviera, Augusta, Norimberga, Landshut am Lech, Darmstadt, Giessen, Francoforte/Meno, Hannover, Brema, Lipsia e Kiel. Ad oggi sono state costruite 200 casette – l’ultima per l’appunto, domenica scorsa, a Berlino – , 150 persone senza fissa dimora hanno oggi un tetto, 83 di loro hanno trovato lavoro e 99 sono riusciti a trovare una soluzione abitativa stabile.

I senzatetto sono direttamente coinvolti nella costruzione delle case, insieme ai volontari. Questo contribuisce a creare un ponte con la società, a riallacciare un dialogo che si è interrotto e, non da ultimo, fa sì che la persona senza fissa dimora si identifichi con la sua nuova casa.

Molti i partner che, in questi cinque anni, hanno appoggiato anche economicamente questo progetto: si va dal privato cittadino che fa un’offerta, alla ditta che mette a disposizione i materiali gratuitamente o a prezzi calmierati. Tra i partner di “Little Home e.V.” c’è anche la Caritas tedesca. Le casette in miniatura sono entrate anche nelle scuole: diverse classi hanno dato una mano a costruire una casetta e hanno assunto idealmente delle “sponsorizzazioni” per accompagnare un ex senzatetto. Anche famose aziende hanno sposato l’idea che è alla base delle casette in miniatura e utilizzano il progetto di costruzione della casa per laboratori di team-building.

 

Le “little home”, in questi anni sono state migliorate. Oggi, all’interno di ogni casetta, oltre a un materasso e ad uno scaffale, c’è anche un kit per il pronto soccorso, un estintore, un gabinetto da campeggio, un lavandino e un piccolo piano di lavoro con possibilità di cucinare.

La 200.ma casetta, costruita domenica scorsa a Berlino, in occasione della Giornata mondiale della povertà, è stata dipinta di rosa e ha sulla sua facciata una piccola casetta per gli uccellini. Su uno dei pallet, un volontario ci ha dipinto un piccolo cuore rosso. Ai lavori, domenica, ha partecipato anche il diacono Wolfgang Willsch, responsabile diocesano della pastorale per i senzatetto che, una volta terminati i lavori, ha benedetto la nuova casa. E per tutti, alla fine, c’è stata una fetta di torta, a festeggiare il traguardo delle 200 “little home”.

Per il taglio del nastro è stato preparato anche un grande mazzo di palloncini colorati. Come quello di “Up”, il celebre lungometraggio della Disney Pixar.

La “little home” della parrocchia di S. Pio a Berlino non prenderà il volo come una mongolfiera come quella di “Up”, ma sicuramente, come la casa di Carl Fredricksen, sarà per il suo nuovo inquilino, un luogo protetto, caldo e sicuro, dove sentirsi finalmente “a casa”.

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Leggere per vivere meglio

29 Nov 2021

di Marco Testi

Sì, è vero, a volte i grandi ci hanno raccontato di una letteratura che fa male, come nel caso della signora Bovary di Flaubert che a furia di leggere romantiche storie d’amore si mette in testa fantasie senza corrispondenze con la realtà; per non parlare del Fogazzaro di “Malombra” che ci narra la fatale commistione tra credenze fantastiche, letture, amori spasmodici, o, tre secoli prima, del Cervantes del “Don Chisciotte” imbevuto di letteratura cavalleresca, o delle fissazioni librarie narrate da Elias Canetti e da Borges, solo per fare pochi nomi. Ma a livello psicologico, terapeutico, neurobiologico è sempre più forte la tendenza contraria: leggere fa bene all’animo, all’umore, alle relazioni. L’immagine di una lettura che isola, che impedisce i rapporti, che crea mondi paralleli in cui si dimentica la realtà è battuta in breccia da quanti, scrittori, medici, scienziati, sostengono invece che la lettura -e la scrittura, oltre che la parola- è socialità e unione tra gli uomini e anche tra noi e l’altro, natura o animali che siano. Lo scrittore calabrese Saverio Strati nel suo romanzo “Il selvaggio di Santa Venere” racconta la storia di un ragazzo isolato soprattutto per colpa di un maestro incapace che scopre nel contatto con la natura e nella lettura la salvezza dalla solitudine: “si rese conto che tramite le lettere, tramite la scrittura era possibile comunicare con milioni d’uomini”. Pensiero confortato dalle ricerche della medicina e della neurobiologia: il contatto non solo con il libro, ma anche con il quadro, la parola condivisa offrono una felicità documentabile anche attraverso la attivazione di mediatori chimici di dopamine, adrenalina o ormoni “positivi” che trasmettono piacere e voglia di vivere a chi legge, guarda, parla o ascolta. Non solo: la Medicina Narrativa e la Rianimazione Letteraria stanno confermando come la lettura, la parola, l’incontro rappresentino una vera e propria terapia salvavita. Come ricorda il neurobiologo Lamberto Maffei in “Elogio della parola”, il cervello, per funzionare a dovere, ha bisogno di stimoli, di rapporti umani, ma anche di parole, dette o lette attraverso giornali, libri, insomma la scrittura. Non dimentichiamoci che uno dei più celebri incipit, quello del Vangelo di Giovanni, recita: “In principio era il Verbo”. Ora lògos in greco ha molte possibilità interpretative: pensiero, parola, verbo, che certamente sono umane forme linguistiche per suggerire l’indicibile, ma che, guarda caso, apparentano il senso alla parola, sia scritta che detta. E questo, trattandosi del trionfo dell’ordine (còsmos) sul caos è un abissale -e confortante- messaggio sul legame tra parola e divinità, una divinità generatrice (e questo inquietava molto il pensiero manicheo e dualista) della materia stessa. Come affermava l’Italo Calvino delle “Lezioni americane”, è possibile che la parola sia l’unico mezzo per attingere a ciò che altrimenti sarebbe inattingibile. La parola, come ricorda Maffei citando lo psicologo sovietico Vygotskij, è il modo di comunicare il pensiero, come una nuvola che rovescia fiumi di parole. Medicina narrativa, biblioterapia, psicocritica, psicologia in generale, scuola – quando non danneggiata da una burocrazia che ne limita la creatività – medicina, biologia, convergono nell’assegnare alla lettura, alla parola, allo sguardo sulla bellezza del mondo e dell’arte una grande possibilità di accordo con sé e con gli altri: un vero e proprio cammino di guarigione, di crescita, di apertura, in poche parole di vita.

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L’orrore della Guerra mondiale sulla città e sul suo Museo

Ma il libro, come dicevamo, propone molti “ponti” tra la storia del Museo e quella della città. E ci mostra una Taranto esposta agli attacchi degli alleati anglo-americani, ripercorre la terribile Notte di Taranto e illustra e documenta i rifugi antiaerei realizzati nell’area urbana; mostra, credo per la prima volta, le trincee antischegge scavate nelle aree urbane.

29 Nov 2021

di Silvano Trevisani

Lo racconta in un saggio avvincente, “Cronache di un Museo in guerra. Taranto 1939-1949”, lo storico Angelo Conte, che propone una ricostruzione inedita di quegli anni

La storia del Museo, quella conosciuta e quella ancora sconosciuta, uomini e donne che contribuirono, anche nei momenti difficili, alla salvaguardia e alla protezione di un patrimonio inestimabile, soprattutto nei momenti più difficili, quelli della Seconda guerra mondiale, sono ripercorribili nel libro “Cronache da un Museo in guerra”. Una ricostruzione scientifica ma anche affascinante, scritta come un racconto corale da un storico e ricercatore che al museo e al patrimonio storico archeologico della città ha dedicato già in passato lavori di grande importanza, che risultano oggi punti di riferimento per specialisti e appassionati. Stiamo parlando di Angelo conte, già docente liceale e archeologo collaboratore per anni del Museo archeologico nazionale della Magna Grecia, che in realtà ha composto, attorno al Museo, un mosaico ampio e convincente della città in guerra, resa fragile dal suo ruolo militare e che tale fragilità riversava su quello che era e che è ancora il suo luogo più prezioso e prestigioso, sia per i reperti che raccoglie, sia per essere la testimonianza “viva” della plurimillenaria storia della comunità.

Di Angelo Conte ricordiamo il volume fondamentale sulla nascita del Museo, “I Signori del piccone. Storia di un museo archeologico del sud: Taranto”, datato 1984, che ha avuto una riedizione recente, e che è stato apripista nel divulgare su basi scientifiche la storia della ricerca archeologica nel territorio, con tutte le sua verità e contraddizioni, culminata nella realizzazione del museo, Tra i numerosi saggi di Conte ricordiamo anche “La dea del sorriso. La Persefone o Afrodite dei tarantini”, pubblicato dieci anni fa, dedicato alla Dea di Berlino, meglio nota popolarmente come Persefone gaia, anche se non di Persefone ma di Afrodite sembra trattarsi. Cui seguirà, cinque anni dopo: “Taranto-Berlino solo andata. Storia del clamoroso trafugamento della «Dea in trono»”, in cui, sempre per i tipi di Scorpione, ricostruisce la storia del trafugamento e della vendita dall’inestimabile reperto al Museo di Berlino, per una cifra pari a circa 100 milioni di euro attuali.

Ma l’idea di quest’ultimo libro nasce dalla necessità si coprire un buco storico, avvalendosi di documenti e materiali in gran parte inediti, in un racconto affascinante che si legge come un giallo, sull’emergenza che la conservazione delle collezioni museali rappresentavano nell’avvicinarsi della guerra. Così apprendiamo che i reperti, esposti al rischio di venire danneggiati o persino distrutti trovandosi in un museo allocato al centro di una città che era piazzaforte militare, e che in effetti verrà più volte attaccata, furono inviati, attraverso scelte e procedure molto complesse e controverse a Cassano Murge, nel nuovo corpo di fabbrica del Convento di Santa Maria delle Grazie, a Castel del Monte, che divenne il più importante rifugio per le opere d’arte pugliesi, (che rischiò di essere distrutto dai tedeschi che, però, decisero di desistere dall’impresa forse anche per rispetto del germanico Federico II) in virtù della sua posizione geografica, solitaria e separata dai grossi centri e a Parma. Qui, nel caveau blindato della Banca commerciale vennero custodite due casse contenenti gli Ori di Taranto.

Incaricato di occuparsi della questione fu, nel 1938, quando, soffiando ormai venti di guerra, il fascismo aveva impartito disposizioni per la protezione dei monumenti e per i musei e le opere d’arte, l’allora direttore del Museo Ciro Drago, il quale aveva proposto, con un documento inviato alla sopraintendenza regionale, il trasferimento delle collezioni a Manduria, ma tale proposta non era stata trasmessa al Ministero per la guerra, che prese altre decisioni. Il libro segue passo dopo passo il viaggio delle opere. Centrale è, naturalmente, il ruolo di Drago anche nella ricostruzione operata da Angelo Conte, perché è proprio lui, diventato, nel 1934 direttore del Museo Archeologico. Sostituiva Renato Bartoccini, che era stato nominato sovrintendente alle Opere di Antichità e d’arte di Puglia, ma nel settembre del 1938 venne trasferito a Bari con l’incarico di soprintendente regionale reggente per la Puglia. Ma l’anno dopo tornò a Taranto con l’incarico di soprintendente alle antichità. Gli tocca, così, occuparsi della messa in sicurezza del patrimonio museale. In realtà Ciro Drago fu un personaggio centrale nello storia della Taranto del tempo, oltre che nella vita e organizzazione del Museo archeologico nazionale. Avrà anche un ruolo politico di primo piano, dopo essere stato antifascista noto per la sua attività e capo dei socialisti locali, fu  anche il primo sindaco del dopoguerra, nominato dal prefetto nel maggio 1944 e rimasto nella sua funzione fino al 1946, quando avvenne la prima elezione amministrativa, dopo aver vissuto alti e bassi connessi alle iniziative di detrattori politici e le rivalità personali.

Ma il libro, come dicevamo, propone molti “ponti” tra la storia del Museo e quella della città. E ci mostra una Taranto esposta agli attacchi degli alleati anglo-americani, ripercorre la terribile Notte di Taranto e illustra e documenta i rifugi antiaerei realizzati nell’area urbana; mostra, credo per la prima volta, le trincee antischegge scavate nelle aree urbane. Scavi che in qualche caso permisero il ritrovamento di importanti reperti, come il mosaico di una domusrinvenuto nell’area della Caserma Mezzacapo.  Appendiamo anche che il museo ebbe, nel periodo bellico, diverse destinazioni, prima di essere restituito alla sua funzione. Fu requisito dagli inglesi, nel 1943, nonostante le assicurazioni di occupare solo la nuova ala e non il vecchio museo, che ne usarono in modo degradante e ne fecero oggetto di furti e aggressioni.

A ostacoli fu anche il percorso degli Ori che, dopo varie vicende e il tentativo di appropriazione dei repubblichini, tornarono a Taranto sono nel 1949.

Una delle pagine inedite per noi più interessanti è quella riguardante Maria Orani, futura moglie del direttore del Museo Ciro Drago, che ebbe una vicenda umana molto particolare e che fu molto vicina alla famiglia Pierri. La Orani, originaria di Cagliari, giunse a Taranto, dove aver insegnato in varie città, come disegnatrice del Museo, un’attività necessaria all’epoca, poiché tutti i reperti venivano copiati da disegnatori professionali (tra loro ci fu anche il pittore Mario D’Amicis) per essere catalogati. Al Museo fece la conoscenza dell’allora sessantasettenne Egidio Baffi, noto storico tarantino e dipendente del Comune distaccato al Museo, e padre di Aminta Baffi, moglie di Michele Pierri.

“Conte – scrive Vittorio De Marco in una delle tre prefazioni al volume, le altre sono si Emanuele Greco e Giovanguaberto Carducci – non perde di vista il quadro generale degli avvenimenti, locali e nazionali, lo scenario complessivo della guerra, le valutazioni dei militari italiani sulla quasi inviolabilità di Taranto dal cielo essendo le basi dei nemici troppo lontane dalla nostra costa, la frustrazione che arriva col bombardamento del novembre 1940 e di quelli che seguiranno nei tre anni successivi, quella che definisce “l’illusione di una città inattaccabile”, un’illusione che non era solo delle autorità militari ma di tutti i tarantini che cominciarono proprio da quella notte a pagare un tributo di morti, feriti e sfollati”.

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Migranti bielorussi: le ‘luci verdi’ della società civile polacca

A handout photo made available by Belta news agency shows asylum-seekers, refugees and migrants gathered at the Bruzgi-Kuznica Bialostocka border crossing, Belarus, 15 November 2021. Asylum-seekers, refugees and migrants, from the Middle East who began to leave the spontaneous camp set up near the border, arrived at the Belarusian-Polish checkpoint of Bruzgi-Kuznica Bialostocka. It was noted that a large convoy of migrants, accompanied by Belarusian security officials, went out towards the frontier checkpoint Bruzgi. Since 08 November, several thousand migrants have been trying to enter the EU and have set up camp in a forest belt adjacent to the border. ANSA/OKSANA MANCHUK / BELTA / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES
29 Nov 2021

Continuano i tentativi disperati dei migranti di lasciare la Bielorussia ed entrare in Polonia. Nel Paese europeo guidato dal premier Jarosław Kaczyński, capo del partito di destra “Diritto e Giustizia”, noto per le posizioni xenofobe, ultra conservatrici e euroscettiche, “l’opinione pubblica è sempre più polarizzata”. Settori della società civile polacca sostengono i diritti dei migranti come racconta Amelia, che chiede di non mettere il suo vero nome per evitare “problemi”. La donna polacca, di origini mediorientali lavora come accademica e ha una lunga esperienza come traduttrice:

“La narrativa, soprattutto dei politici al governo, dipinge coloro che vengono dal Medio Oriente, soprattutto musulmani, come persone che praticano la zoofilia e pedofilia e per questo non possono entrare in Polonia”.

 

“Per sostenere questa tesi i ministri degli Interni e della Difesa nazionale polacchi sono arrivati a mostrare durante una conferenza stampa trasmessa dalla televisione pubblica, una foto presa da internet la cui provenienza è tutta da verificare. L’idea della difesa del confine rafforza l’identità polacca. La Polonia ha una grande e recente storia di emigrazione, durante la seconda guerra mondiale e sotto il regime comunista quando migliaia di polacchi sono fuggiti. E ancora più recentemente, dopo l’ingresso in Ue migliaia di nostri connazionali hanno beneficiato della libertà di movimento per andare a cercare fortuna in altri Paesi europei”. C’è chi non si rassegna a questa narrative di odio e non accetta la situazione al confine e la politica di respingimenti violenti del governo. “Molte persone – aggiunge Amelia – stanno mandando soldi, altri raccolgono beni necessità che stanno inviando verso il confine. Quando riusciamo, con i miei amici dopo il lavoro andiamo nei punti dove si raccolgono e impacchettano beni di prima necessità. Un gruppo di attori e attrici è andato in una cittadina vicina al confine per esprimere sostegno alle persone intrappolate in Bielorussia, nel gruppo c’era anche l’attore Macej Stuhr. Due giorni fa qualcuno ha scritto sulla tomba della sua famiglia ‘M. Stuhr assassino di polacchi’. Io non riesco a capire come mai chiedere il rispetto della vita di alcune persone equivalga a ucciderne alter”. Lo scorso 20 novembre migliaia di persone sono scese in piazza a Varsavia a sostegno dei migranti “intrappolati” al confine.

Maltrattamenti e abusi.Alcuni episodi di maltrattamenti ai danni di famiglie con bambini piccolissimi riportati da Natalia Gebert, dell’associazione Dom Otwarty, una delle 14 associazioni parte del network Grupa Granica (“Gruppo di confine”), impegnato nella tutela dei diritti umani e civili delle persone migranti e richiedenti asilo, danno la cifra del comportamento del governo polacco e l’evoluzione dell’opinione pubblica sulla vicenda. A Varsavia migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’atteggiamento della Polizia e dei militari. Di questi giorni le immagini giunte dalla frontiera che hanno mostrato una bambina curda chiedere invano dell’acqua ai militari polacchi armati di mitra dislocati a guardia del confine.

La denuncia.“Abbiamo iniziato a lavorare presso il confine, in collaborazione con Fundacja Ocalejnie, già nell’agosto scorso – racconta Natalia Gebert – e abbiamo ricevuto molte richieste di aiuto da persone disperse nella foresta. Alcune delle foreste al confine sono fitte e ricche di paludi dove è veramente difficile anche solo camminare, figuriamoci sopravvivere. Abbiamo soccorso persone che stavano affogando nei terreni paludosi, persone che non erano ovviamente preparate ad attraversare quel tipo di foresta. Quando come associazioni ci siamo messe insieme per formare Grupa Granica non immaginavamo la portata della crisi umanitaria, pensavamo che avremmo solo dovuto intervenire dal punto di vista legale per agevolare le procedure per la richiesta di asilo. Non pensavamo che il governo procedesse a respingere tutte le persone, incluse donne incinte e bambini”. A riguardo Gebert riporta la storia di “una donna incinta di circa tre mesi proveniente dal Congo. Le guardie di confine non le credevano, la gravidanza non era molto visibile, L’hanno gettata al di là della rete del confine come un sacco di patate, ha sbattuto violentemente in terra e ha perso il bambino. Ci sono molte storie così, potrei continuare a lungo”.

Luce verde.Le 14 associazioni del network Grupa Granica da agosto stanno lavorando con la popolazione locale, attraverso degli education teams, villaggio per villaggio, spiegando cosa significa essere un rifugiato, quali sono i diritti, raccontando dei paesi di provenienza e ricordando che aiutare le persone con cibo e acqua è legale. “All’inizio del nostro lavoro di sensibilizzazione abbiamo avuto diverse reazioni differenti, anche negative. Ora invece molte persone ci contattano perché vogliono aiutare. E incredibile quello che la popolazione locale vicino al confine sta facendo, perché loro non hanno scelto di ritrovarsi in questa situazione. Una persona che abita nella zona di confine – dice Gebert – mi ha riferito che si sente come se si trovasse nello scenario della Seconda guerra mondiale, quando le persone nascondevano gli ebrei dai nazisti. Vivono con 20mila militari schierati nelle aree di confine. Oltre a polizia e guardie di confine, ci sono elicotteri che sorvegliano i cieli e camion militari nelle strade. Molte abitanti stanno espressamente dichiarando il loro supporto ai migranti, mentre all’inizio c’era molta più paura. Ho parlato con una donna che lasciava una pentola con della zuppa calda ai margini della foresta, ma lo faceva di sera, per non essere vista dai vicini”. Sta prendendo piede nelle case di confine anche la pratica di lasciare una luce verde accesa per indicare ai migranti che in quella abitazione possono chiedere aiuto e assistenza.

Libertà di stampa violata. Intanto si fa sempre più pesante la situazione per i giornalisti in Polonia. Un duro comunicato è stato rilasciato dal Media Freedom Rapid Response (Mfrr), progetto coordinato da una serie di organizzazioni che si occupano di monitorare e reagire alle violazioni della libertà di stampa e dei media negli Stati membri dell’Ue e nei paesi candidati. L’appello al Governo polacco è chiaro: rispettare e facilitare il libero flusso di informazioni consentendo ai giornalisti l’accesso al confine con la Bielorussia per riferire sulla situazione umanitaria. “Le restrizioni sproporzionate hanno gravemente limitato la capacità dei giornalisti e delle organizzazioni dei media polacchi e di tutto il mondo di coprire questa terribile situazione dei diritti umani e garantire un’adeguata protezione a coloro che sono bloccati in condizioni disumane”.

“Lo stato di emergenza – si legge nel comunicato – si traduce anche nella criminalizzazione dei giornalisti che cercano di riferire su una questione di rilevante interesse pubblico. Tali restrizioni alla libertà dei media all’interno di uno stato membro dell’Ue non hanno precedenti”.

Il Media Freedom Rapid Response denuncia che “nell’ultima settimana, anche i giornalisti che operano fuori dalla zona soggetta a restrizioni hanno dovuto affrontare detenzioni arbitrarie e intimidazioni da parte della polizia e del personale militare”. (Aggiornamenti in tempo reale sulla pag. Fb associazione Neos Kosmos)

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La caduta dell’amministrazione comunale ha avuto ripercussioni sullo stop del Peba

SEDIA A ROTELLE DAVANTI AD UNA SCALINATA BARRIERE ARCHITETTONICHE
29 Nov 2021

di Marina Luzzi

Tutto fermo per il Peba, il Piano di eliminazione delle barriere architettoniche.  Che il terremoto politico che ha portato alla caduta dell’amministrazione comunale si sarebbe fatto sentire, era chiaro. Andando ad analizzare i vari ambiti lo è ancora di più. L’assessorato comunale all’Urbanistica e Grandi Progetti aveva terminato le procedure tecniche per giungere all’approvazione definitiva del Peba, che era stato già presentato nel 2019 in un primo stralcio riguardante i quartieri Porta Napoli, città vecchia e Borgo e che, grazie ad un finanziamento ottenuto dalla Regione Puglia, doveva essere esteso a tutta la città. «Abbiamo approvato il Peba in giunta – ci spiega Ubaldo Occhinegro, ex assessore al ramo del Comune – e adesso ci sarebbe dovuto essere un passaggio prima in consiglio comunale e poi con la città, ma non sarà così e probabilmente se ne riparlerà fra sette mesi, con l’insediamento di un nuovo sindaco. Dispiace perché ci avevamo lavorato tantissimo». Le barriere architettoniche non sono un “servigio” ai disabili, sono un sacrosanto diritto che si estende a tutti: mamme con passeggini, persone con infortuni temporanei per cui è necessario muoversi in carrozzina o con le stampelle. «Dicevo che dispiace perché il lavoro è stato impegnativo. Abbiamo censito tutte le criticità della città, che sono migliaia, dai marciapiedi privi di rampe agli impedimenti ottici. Un lavoro fatto insieme alla direzione lavori pubblici, che portando avanti un importante piano strade e marciapiedi doveva adottare il piano e renderlo operativo nel rifacimento dei vari accessi e rampe nelle strade»- prosegue Occhinegro. Dopo la presentazione degli elaborati progettuali da parte del tecnico incaricato, l’architetto Alessandro Massaro, e l’approvazione in giunta, assieme all’Urban Transition Center e all’assessorato ai Servizi Sociali era prevista una fase di consultazione pubblica con il coinvolgimento dei cittadini, dei professionisti e delle associazioni con cui il percorso era già stato avviato nel 2019 in cinque incontri tenuti all’assessorato all’Urbanistica. Il Peba, per un mese, doveva essere oggetto di eventuali osservazioni da parte di tecnici, associazioni e semplici cittadini, per poi passare al vaglio della commissione consiliare Assetto del Territorio e al voto per la definitiva adozione in Consiglio Comunale. A ottobre scorso, dopo l’approvazione in giunta, erano state queste le parole del neo eletto assessore al ramo, che aveva sostituito Occhinegro nel rimpasto di giunta, Emanuele Di Todaro. «La direzione Urbanistica ha compiuto un lavoro eccezionale compilando l’ennesima pianificazione che darà ordine a un settore così complesso. Ora ci aspettiamo che arrivino indicazioni costruttive, che possano ulteriormente qualificare il provvedimento e renderlo compiutamente rispondente alle esigenze dei cittadini».

SEDIA A ROTELLE DAVANTI AD UNA SCALINATA BARRIERE ARCHITETTONICHE

 

Il lavoro era su tutti i fronti: istituti scolastici primari e secondari, uffici comunali inaccessibili o con ascensori che non funzionano, istituti superiori, di competenza della Provincia, in tutte le loro parti, o nelle aree comuni. A Taranto è ancora inaccessibile anche la stazione e la Sala Blu, che offriva un servizio di assistenza, è chiusa. «La nostra idea di transizione- aveva detto il sindaco Rinaldo Melucci –anche in campo urbanistico, è totalmente inclusiva: ora toccherà ai cittadini e ai loro rappresentanti offrire un contributo costruttivo a questa importante prospettiva».  Per il momento così non sarà. Ad oggi nessuno è stato in grado di dirci se il commissario prefettizio potrà lavorare per portare avanti le consultazioni con la città ma comunque mancherebbe il placet del consiglio comunale.

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Mariangela Tarì, cavaliere della Repubblica: dal dolore la sua ‘potenza creatrice’

29 Nov 2021

di Marina Luzzi

Mamma di due bambini fragili, la signora Tarì aveva descritto la sua storia in un libro edito da Mondadori: “Il precipizio dell’amore”

Una sorpresa e un riconoscimento ad un’intera categoria che manda avanti il Paese con la forza dell’amore. Mariangela Tarì, 47 anni, mamma di Sofia, bambina con disabilità e di Bruno, un bambino di 5 anni, colpito da un tumore al cervello, da qualche giorno è Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La sua storia è arrivata già da qualche tempo alla ribalta nazionale grazie ad un libro di cui è autrice per Mondadori: “Il precipizio dell’amore”. Un racconto della sua vita, alle prese tutto il giorno con due bambini fragili da cui però attinge tanta forza, perché, come sostiene Mariangela “anche da un grande dolore può venire fuori una potenza creatrice”. «La prima cosa che mi viene in mente se penso a questo riconoscimento è incredulità. Io l’ho saputo un attimo prima di tutti gli altri. Mi hanno telefonato dalla segreteria di Mattarella – ci racconta – ed io per tre volte ho ripetuto: “ma è uno scherzo?”. No, no mi hanno risposto, il presidente della Repubblica Mattarella è molto attento a queste questioni, quindi ha scelto lei. È un riconoscimento bellissimo e importante perché riguarda non me ma una categoria di persone che io rappresento, i caregiver familiari. È bello sentire che sei sulla strada giusta, che stai percorrendo un sentiero che ti porterà da qualche parte. Certe volte ci si domanda: “starò facendo bene? È giusto quello che dico, che scrivo?”. Questa è una risposta, è il mondo che mi dice che sì, bisogna andare avanti lungo questa strada». Mariangela porta avanti l’associazione “La casa di Sofia”, che si occupa di promuovere la terapia ricreativa come strumento di miglioramento della qualità della vita dei bambini gravemente ammalati e dei loro genitori.«Per costruire il dopo di noi, bisogna partire dal durante noi. Non puoi svegliarti un giorno e renderti conto che hai 80 anni e tuo figlio non sai dove sistemarlo. Io ho sempre paura della vecchiaia – ci confessa – perché chi si occupa h24 di una persona con qualsiasi tipo di disabilità ha difficoltà a pensare di lasciarla in altre mani, perché è un atto della cura che tu fai e impari sul campo. Nessuno te lo spiega. E l’idea di lasciare un figlio a chi non ha la stessa compassione, lo stesso amore, la stessa cura, ti fa paura. Noi siamo trasversali a tutto e quello che non funziona per gli altri figuriamoci se funziona per i fragili. E quindi per questo bisogna partire da oggi, cercando di capire cosa manca in questa società, perché dobbiamo costruire noi e non lo fanno le istituzioni, perché manca tutto un pezzo. E poi ci occupiamo di restituire ai bambini, ai ragazzi, quello che manca che è lo stare insieme agli altri, lo sport, il gioco». A questo proposito uno degli ultimi progetti in cui l’associazione è impegnata è quello di una scuola calcio inclusiva, dove tutti i bambini, a prescindere dalla loro difficoltà, possano sentirsi alla pari, giocando.«L’idea nasce da un’esigenza personale perché mio figlio, finite le terapie con la chemio e la radio, era un bambino molto provato e debole, voleva giocare a calcio ma nessuno lo prendeva perché le scuole calcio non accettano bambini con disabilità o problemi, dato che servirebbe una persona dedicata per ognuno e non possono fare le partite. E quindi Bruno, mio figlio, piangeva e non gli riuscivo a spiegare il perché non potesse giocare e così abbiamo scoperto a Verona, dove vivo da dieci anni proprio come scelta necessaria per le cure dei miei bimbi, la scuola Insuperabili, una vera e propria scuola calcio, in cui si usa il pallone per riabilitare i bambini. Invece di andare in centri riabilitativi dove ti senti  diverso, isolato dal mondo, loro usano il calcio e lo usano con professionisti che si sono formati apposta. È un’idea che coinvolge la nazionale di calcio, pensata da Giorgio Chiellini. È un progetto enorme che ha un costo importante per essere esportato a Taranto. La formazione la stiamo pagando noi di Casa di Sofia». Poi l’appello di Mariangela. «Se siete fisioterapisti, educatori, insegnanti di sostegno, persone che amano il calcio, iscrivetevi. La formazione sta iniziando in questi giorni e poi dopo partirà la scuola calcio. A dicembre ci sono 4 giorni di Open day e servono tantissimi volontari perché ogni bambino avrà bisogno di almeno due persone accanto per svolgere l’attività sportiva».Trovate più informazioni su

, oppure sulla pagina Facebook La  casa di Sofia.

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La Giornata diocesana dei giovani: Accendere la fiamma della fiducia

29 Nov 2021

di Francesco Mànisi

Domenica  21 novembre 2021, papa Francesco ha voluto che in tutta la Chiesa si celebrasse la XXXVI Giornata mondiale della Gioventù. A Taranto, momenti di festa e aggregazione nella città vecchia

 

 

 

Domenica  21 novembre 2021, papa Francesco ha voluto che in tutta la Chiesa si celebrasse la XXXVI Giornata mondiale della Gioventù, spostandone definitivamente la ricorrenza annuale dalla Domenica delle Palme alla solennità di Cristo Re dell’Universo. Durante la santa messa, celebrata a San Pietro, il Santo Padre ha incoraggiato tutti i giovani del mondo ad alzare lo sguardo e ad essere sognatori coraggiosi, “liberi,autentici”, con “la passione della verità, perché con i vostri sogni– come afferma nell’omelia, rivolgendosi ai giovani presenti – possiate dire: la mia vita non è schiava delle logiche di questo mondo, perché regno con Gesù per la giustizia, l’amore e la pace!”.

Dalla felice intuizione di San Giovanni Paolo II nel 1985, le Giornate mondiali della Gioventù sono divenute un appuntamento atteso e imprescindibile per i giovani cattolici di tutto il mondo: un evento vivace, esuberante, che in questo anno di riprese dallo stop della pandemia, assume un significato del tutto particolare, ponendosi come segnale luminoso di rivincita e di speranza nel futuro.

Il tema scelto per questa XXXVI Gmg (da vivere nelle singole realtà diocesane in attesa del grande raduno di Lisbona nel 2023) è tratto dagli atti degli apostoli: “Alzati, ti costituisco testimone di quello che hai visto”(At 26,16), versetti nei quali Paolo racconta al re Agrippa la sua esperienza di conversione. il Signore si manifesta a Saulo sulla via per Damasco e lo inonda di luce, al punto di farlo cadere in terra, poi gli intima di rimettersi in piedi e di testimoniare a tutti ciò che ha visto. L’imperativo è chiaro ed intercetta un desiderio vivo e pulsante in ciascuno di noi, soprattutto nei più giovani, quello di risollevarsi definitivamente dal periodo critico che tutto il mondo ha dovuto attraversare negli ultimi mesi, con la forza della visione: la speranza.

Anche i giovani della nostra arcidiocesi hanno accolto l’invito a ri-alzarsi per poter testimoniare l’amore di Cristo a tutto il mondo: il servizio diocesano di pastorale giovanile di Taranto ha proposto a tutti i ragazzi del territorio un momento di festa e di aggregazione (pur nel rigoroso rispetto delle normative anti-covid) nella suggestiva cornice della città vecchia di Taranto, per tutto il pomeriggio di sabato 20 novembre. Si è trattato del primo raduno diocesano di giovani, dopo due anni di impedimenti e incontri in remoto, che ha visto protagonisti circa duecento giovanissimi e giovani, provenienti dalle parrocchie di Taranto e dei comuni limitrofi.

L’incontro si è aperto intorno alle 16.45, con un momento di accoglienza e di animazione nel campetto della parrocchia di San Giuseppe. I numerosi partecipanti sono stati divisi successivamente in due gruppi. Il primo, formato da ragazzi e ragazze della fascia di età compresa tra i 14 e i 17 anni ha vissuto un interessante laboratorio sulla fiducia in se stessi a cura di don Francesco Misceo, segretario particolare dell’arcivescovo di Bari. Al secondo gruppo, composto da giovani di18 anni in su, don Davide Russo, rettore del seminario arcivescovile di Ugento, ha offerto una riflessione sulla medesima tematica nel santuario della Madonna della salute.

L’intento è stato quello di dare forma concreta al tema pastorale proposto dall’arcivescovo all’inizio dell’anno. Nella lettera indirizzata a tutte le realtà giovanili del territorio, riprendendo il messaggio del Santo Padre, mons. Santoro scrive: “Le parole di papa Francesco fanno da eco al cammino che come chiesa diocesana siamo chiamati a vivere in questo nuovo anno pastorale, – Portatori di fiducia in un cammino sinodale -. Senza l’esperienza della fiducia risulta impossibile rimettersi in piedi e se non gustiamo la bellezza del camminare insieme anche il desiderio di costruire un’umanità nuova rischia di rimanere uno sterile ideale. Per questo motivo abbiamo pensato a un evento che possa mettere insieme l’attenzione alla fiducia e alla sinodalità”.

Il momento laboratoriale sulla fiducia è stato seguito, infatti, da un momento significativamente “sinodale”: un intenso pellegrinaggio verso la Cattedrale. Insieme, con lo stesso passo, verso la chiesa madre della diocesi, origine della fede tarantina. Qui, alle ore 19.00, ha avuto luogo la grande veglia di preghiera presieduta dall’arcivescovo Santoro, fulcro di tutto l’evento.

In un clima gioviale e festoso, dopo aver letto il messaggio di Francesco rivolto a tutti i giovani del mondo, è stata accolta la grande croce della Gmg. Durante la sua riflessione, commentando l’episodio di Pietro che cammina sulle acque in tempesta, mons. Santoro ha ribadito l’importanza imprescindibile di fidarsi del Signore, soprattutto nei momenti di tempesta: è dalla certezza della fedeltà di Dio alla storia che nasce la speranza, questo il presupposto per potersi rialzare.

Il momento di preghiera si è concluso con la consegna simbolica di un elegante cero, preparato dalle suore benedettine di Manduria, recante il logo del percorso annuale della pastorale giovanile di Taranto e la scritta “Mi fido di te”. I giovani rappresentanti delle trenta parrocchie e associazioni della diocesi presenti in Cattedrale hanno ricevuto questo piccolo dono dalle mani del vescovo, diventando destinatari di una grande missione: quella di riaccendere la fiamma della fiducia in un mondo ormai scoraggiato e spesso privo di luce. Una volta al mese, sul sito diocesano della pastorale giovanile sarà pubblicato uno schema di preghiera che il gruppo potrà vivere attorno a questa fiamma.

La speranza è giovane, la speranza è dei giovani!

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La nuova teca è una barca in cui ci mettiamo tutt’insieme

29 Nov 2021

di Marina Luzzi

L’importanza della comunità, per non perdere la strada e santificarsi nel quotidiano. Sono alcuni dei passaggi salienti dell’omelia che l’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, ha tenuto domenica scorsa, in occasione della cerimonia di ricognizione delle reliquie di san Cataldo e della consegna ufficiale alla città di un nuovo reliquiario in argento in cui riporre i resti del santo patrono. L’arcivescovo, in questo momento solenne, ha in primis verificato l’integrità della teca in cui erano contenute le reliquie e poi, una volta aperta, le ha traslate nel nuovo reliquario. «San Cataldo è stato testimone della regalità di Cristo. Ha toccato la nostra terra, ha toccato la nostra diocesi con la testimonianza della sua vita, con i miracoli che ha fatto, con l’intercessione che sempre ha avuto nei nostri confronti. Perciò occorre che prendiamo coscienza che la regalità si vive nella vita quotidiana. Non è un regno di trionfo, di cose esteriori, è un regno della nostra azione quotidiana. Ma perché la nostra vita sia quotidianamente sostenuta da questo amore di Cristo – ha spiegato mons. Santoro – c’è bisogno di una comunità, c’è bisogno di una Chiesa, c’è bisogno di una casa: senza una casa noi ci perdiamo. Questo è il male del nostro tempo: l’individualismo. Ciascuno da solo, è perduto! E invece abbiamo bisogno di una casa: una casa che ci ricorda, una casa segno di memoria. Una comunità».

 

 

Il dono del reliquario in argento è avvenuto in occasione del giubileo dei 950 anni del ritrovamento del corpo di San Cataldo, della ricostruzione dell’omonima basilica Cattedrale, del suo XXV anniversario di ordinazione episcopale ma anche in ricordo dell’annuncio della sua nomina ad arcivescovo della diocesi tarantina, avvenuta il 21 novembre 2011. Si tratta di una pregiata teca in argento disegnata a mano, dei maestri orafi di Francavilla Fontana Francesco Franchina e Isabella Dirella. Un’imbarcazione accompagnata dai delfini, che solca i due mari, richiamo immediato alla vicenda del santo che venne come apostolo evangelizzatore approdando a Taranto dalle coste ioniche. «Questa ricognizione sia per noi il grande momento di una rinascita, di un cammino pieno di fiducia, di un cammino in cui ci mettiamo insieme in questa barca» – ha chiosato mons. Santoro. La nuova urna è stata progettata per l’esposizione permanente alle spalle dell’altare del cappellone. I reliquiari che fino ad adesso hanno custodito le reliquie sono invece stati esposti nel museo diocesano. In occasione di questo passaggio, nella basilica si è tenuta la solenne ricognizione canonica delle reliquie e la riposizione nel nuovo reliquario. Un atto storico e solenne al quale hanno preso parte il Capitolo Metropolitano, le autorità cittadine e le delegazioni delle Terre cataldiane, la rete delle parrocchie, dei santuari, delle chiese, delle confraternite, delle città, dei paesi e delle frazioni unite dal patrocinio del santo irlandese, tra cui Bari, Lecce, Pattano (Salerno), Rocca Romana (Caserta), Corato (Bari). In tutto una decina. E proprio a loro l’arcivescovo Santoro ha consegnato una reliquia del santo, perché continuino a custodire la devozione nel proprio territorio.

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Il Talsano ritrova il ‘Renzino Paradiso’ per tornare alla vittoria

16 Nov 2021

di Paolo Arrivo

Assistere a una partita di calcio della categoria Promozione è fare un salto negli anni pre-Covid e pre-social. Quando i calciatori in erba giocavano a pallone per puro piacere, passando dalla strada ai campetti di terra battuta o in sintetico, seguiti settimanalmente dai loro parenti, amici e genitori. Supporter, quest’ultimi, fin troppo calorosi… Lì dove i più promettenti sognano di diventare campioni, quell’odore di terra, un mix di fatica e passione, finisce con l’impossessarsi di ogni spettatore. Anche di chi si trova allo stadio “Renzino Paradiso” al quartiere Tramontone. Un campo benedetto per il Talsano Taranto, che nell’ultimo match casalingo si era sbarazzato del Novoli per 4-1: la formazione biancoverde aveva dimostrato di essere un gruppo che gioca da squadra; che possiede tecnica ed individualità buone. L’ottima prestazione non è stata replicata a Tricase purtroppo. Inatteso il ko, a spezzare la striscia di quattro risultati positivi consecutivi, arrivato dopo il goal illusorio di Franco nei primissimi minuti di gioco. Era stato Bonaventura a pareggiare i conti su calcio di rigore; l’Atletico Tricase ha poi steso il Talsano grazie alla doppietta di D’Amico nella ripresa.

In classifica, a trazione salentina, nel girone B della Promozione (conduce il Gallipoli a quota 27 punti, seguito da Taurisano e Leverano), il Talsano è sceso al quarto posto. Gli uomini allenati da Giacomo Pettinicchio proveranno a riscattarsi questa domenica facendo ritorno allo stadio Renzino Paradiso. Avversario il Capo Di Leuca, che, al pari dei biancoverdi, avranno fame di vittoria. Se non maggiore, perché reduci dalla pesante sconfitta interna inflitta dalla capolista Gallipoli per 5-0. Per il Talsano l’imperativo categorico è non ripetere gli ultimi errori. Come quello che, domenica scorsa, ha causato il rigore. La squadra c’è e lo ha dimostrato nella seconda frazione di gioco creando diverse occasioni – mettere il turbo nella ripresa sembra essere una caratteristica della stessa formazione. Stavolta, però, è mancato il cinismo, la capacità di concretizzare facendo goal. Non la propensione a salire di ritmo alzando il livello di gioco. La sconfitta ad ogni modo, per ammissione dello stesso tecnico tarantino, fa sempre riflettere e crescere, guardando al breve e medio termine. Il cammino del Talsano in questo campionato è senz’altro positivo. Al netto dell’ultima prestazione, più sfortunata che sottotono: la legge del calcio vuole che chi attacca rischia, poi, di prendere goal. Contro Capo Di Leuca sarà fondamentale non ripetere gli errori. Non sottovalutare l’avversario che, sebbene si trovi in zona playout (al terzultimo posto, in coabitazione col Melendugno), potrebbe rendersi pericoloso. La società presieduta da Gianluigi Palmisano può mirare al salto di categoria, a fine stagione. Perché ha un grande allenatore. E un collettivo capace di regalare grandi soddisfazioni ai suoi fedeli tifosi.

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La grande palude dell’inserimento lavorativo

16 Nov 2021

di Andrea Casavecchia

Sembra che oltre 2600 navigator non avranno il rinnovo del contratto, secondo l’impianto della futura legge di Bilancio. È una sonora bocciatura per la figura professionale che era stata introdotta per accompagnare nel percorso di inserimento lavorativo i percettori del Reddito di cittadinanza.

I detrattori di una delle misure simbolo del Movimento 5 stelle esultano perché è un altro segnale della fragile impalcatura della misura costruita per sostenere i più deboli. Eppure, di un intervento simile l’Italia aveva e ha bisogno, lo dimostra l’intenzione di mantenere il provvedimento complessivo, anche se un po’ ritoccato. I navigator avrebbero dovuto aiutare i cittadini a svincolarsi dal sussidio per sostenersi autonomamente attraverso un nuovo lavoro.

L’insuccesso della figura professionale è una grave sconfitta per tutta la nostra società, perché non sarà cercata una soluzione sostitutiva. Le intenzioni sono di riassegnare ai servizi precedenti il compito: i centri per l’impiego e le agenzie per il lavoro autorizzate. Purtroppo, se i risultati complessivi dei navigator non sono stati efficaci, neanche le organizzazioni in questione avevano raggiunto l’obiettivo, quindi appare lecito non aspettarsi molto.

La sconfitta dei navigator potrebbe essere un’occasione per comprendere la complessità del processo di inserimento lavorativo nella normalità dei casi, figurarsi quando ci si trova ad aiutare le fasce più vulnerabili. In Italia ci sono in primo luogo due figure che trovano difficoltà a trovare un’occupazione: da una parte i giovani, dall’altra parte i disoccupati over 50. I tragitti da proporre loro non sono nemmeno simili.

Nel primo caso si tratta di invitare i ragazzi a costruirsi figure professionali flessibili con alcune abilità di base e la capacità di modificarle e riadattarle, perché dovranno sempre più rispondere a un mondo del lavoro volubile, che si integra sempre più con le tecnologie e che cerca persone cooperative e allo stesso tempo autonome nei compiti da svolgere. Nel secondo caso il problema è più complesso, perché si tratta di adulti con un’esperienza pregressa che spesso non è più spendibile ai quali viene chiesto di ricominciare, oppure a uomini e donne di mezza età senza esperienze di lavoro vero, che si sono arrabattati nel mondo del sommerso con lavori più o meno importanti. Inserire questi ultimi significa proporre loro un cambiamento di stile di vita, non solo un aggiornamento sulle competenze.

In secondo luogo, bisogna scontare una differenza tra i territori. L’Italia non è omogenea. Oltre alle classiche differenze tra Nord e Sud, ci sono quelle tra città e campagna, tra zone dell’entroterra appenninico e zone marine. Le risorse sono differenti e altrettanto varie sono le realtà produttive. Per uscire da questa palude una politica di inserimento lavorativo dovrebbe rispondere a una politica industriale che risponda alla plurale vocazione delle molteplici comunità locali. In fondo, in questo periodo le risorse economiche ci sono: andrebbero messe a sistema anche in una logica sussidiaria.

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Educare i giovani all’accoglienza dei migranti per allargare i confini

16 Nov 2021

di Silvano Trevisani

Si è svolto, nell’auditorium dell’istituto tecnico Amaldi di Statte, il XVIII convegno Migrantes, in occasione della Giornata mondiale. L’intervento dell’arcivescovo Filippo Santoro

“Verso un ‘Noi’ sempre più grande” è stato il tema del XVIII convegno Migrantes della diocesi di Taranto svoltosi il 10 novembre scorso nell’auditorium dell’istituto tecnico industriale Amaldi di Statte, in occasione della 107a Giornata mondiale del migrante, davanti a una platea di studenti e operatori volontari dei servizi sociali.

L’intenso programma dell’incontro, organizzato dall’Ufficio diocesano per la pastorale dei migranti, ha inteso riprendere, nel tema proposto, le parole di papa Francesco, ripetute nell’appello lanciato il 24 ottobre scorso per i migranti respinti in Libia. In apertura, dopo i saluti del sindaco di Statte, Franco Andrioli e del dirigente scolastico dell’Amaldi, Francesco Raguso, il vicequestore vicario, Rosa Maria Padovano ha rappresentato la vicinanza della prefettura e del ministero per l’attività svolta in favore del migranti, quindi l’arcivescovo Filippo Santoro ha introdotto i lavori, commentando l’appello del papa e sottolineando l’importanza dell’educazione di ragazzi e giovani, sin nei banchi di scuola, all’accoglienza del prossimo e del diverso. “Un’occasione importante in un momento in cui il fenomeno della migrazioni sta assumendo dimensioni sempre maggiori. Tutta l’accoglienza dev’essere fatta tenendo presente un orizzonte allargato a tutto il Paese. Dobbiamo protenderci a costruire un futuro migliore, in cui siamo tutti fratelli, ognuno con la propria responsabilità. Taranto ha sempre offerto accoglienza e rifugio a chi fugge dalle guerre e dalle ingiustizie e continuerà a farlo, mettendo insieme tutte le forze in campo in nome di papa Francesco”.

È toccato a Marisa Metrangolo, direttrice dell’Ufficio diocesano per la pastorale dei migranti, aprire la serie degli interventi evidenziando come nelle parole del Papa sia racchiuso tutto il messaggio di fraternità che, superando le barriere dell’io, ci induce a sentire tutti gli altri come parte di un “noi” universale. Ha quindi evidenziato come nel Rapporto Immigrazione di Caritas Migrantes 2021, gli immigrati regolari in Italia risultino 5.035.06. Le donne sono in maggioranza, il 51,82%. Confrontando i dati dello scorso anno (5.300.000) si evince che il numero degli immigrati è diminuito di 300mila unità. Se ne deduce che l’Italia ha perso attrattive per i migranti, verso i quali manca di attenzione sociale, sanitaria, abitativa, cioè di accoglienza. Ma i toni allarmistici continuano. Migliaia di persone straniere hanno deciso di andarsene dall’Italia, insieme a tanti italiani. In Puglia gli immigrati sono 134.788 mentre nella provincia di Taranto sono 14.209.

 

Dal Rapporto “Italiani nel mondo” – ha aggiunto – apprendiamo che il numero degli italiani nel mondo ha superato il numero degli immigrati in Italia: oggi sono 5.600.000!

Marisa Metrangolo ha anche presentato un video che ha ripercorso i diciotto anni di attività dell’Ufficio diocesano.

Un approfondimento dei temi contenuti nel messaggio del Santo padre lo ha offerto la relazione di don Ciro Alabrese, direttore diocesano dell’Ufficio Educazione, scuola e università, che ha rimarcato come la Chiesa abbia da sempre posto al centro della propria attività pastorale il problema delle migrazioni, come dimostra il fatto che quella del migrante sia stata la prima Giornata mondiale ad essere stata istituita, nel lontano 1914, quando erano milioni di italiani, seguiti anche da molti sacerdoti che ne curavano le esigenze spirituali, a emigrare, soprattutto nelle Americhe.

Flavia Leopardo, in rappresentanza dell’associazione “Noi e Voi”, ha presentato la testimonianza di un giovane profugo, il quale ha sottolineato l’importanza dell’integrazione, che rappresenta il necessario prosieguo del percorso che inizia con l’accoglienza e la protezione di chi arriva, secondo il messaggio del papa.

Dal convegno è scaturita una sollecitazione sia all’accoglienza che alla comprensione del diverso, nella consapevolezza che il confronto tra cultura ha sempre prodotto un reciproco arricchimento.

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