Editoriale

Sbandamenti sui tornanti del neutralismo

26 Apr 2022

di Emanuele Carrieri

Tutte le persone che si erano illuse che, con la pandemia, il vaso dei negazionisti fosse traboccato, si devono ricredere. Un rilevamento dell’istituto Demos ha rilevato che un italiano su quattro crede che le atrocità russe siano effetto della propaganda ucraina. Il dato, pur in sé drammatico, non sorprende affatto. Capita spesso di sentire in diretta o riportate da altri, frasi del tipo “Chissà cosa ci sarà sotto”, o “Zelensky, prima di fare il presidente, faceva l’attore”. È una spirale perversa senza interruzioni, traboccante di pilateschi distinguo e di letture, più o meno, a base di complotti, intrighi e macchinazioni. E poi, come se tutto ciò non fosse sufficiente, ci si aggiunge anche lo spettacolo deprimente dei programmi di approfondimento che, da quando è iniziata la guerra, hanno invaso tutto l’arco costituzionale televisivo, a qualunque ora, del giorno e della notte. Stupisce e non poco, il fatto che una donna reattiva come Bianca Berlinguer possa essere rimasta impassibile di fronte a uno che, fra un “signori miei” e un “il punto fondamentale è …”, qualche settimana fa sentenziava che “i bambini possono essere felici anche in dittatura”. Di recente, per rincarare la dose, nel medesimo studio televisivo, l’Illustrissimo ha detto: “Prima del ’45 in Italia non c’era una democrazia liberale, eppure mio nonno ha avuto comunque una vita felice … Io sono in contatto con famiglie a Mariupol che mi scrivono tutti i giorni e mi dicono professore, parli lei. Voi italiani siete impazziti a dare armi”. Saltiamo a piè pari sulle fan che, anche da una città rasa al suolo e in cui i superstiti vivono come topi da settimane, riescono a vedere le tv italiane e intrattenere una corrispondenza via internet. Se sui mezzi di comunicazione di massa ‘storici’, in aggiunta al sudiciume dilagante sui social media, il dibattito sulla tragedia immane che si sta consumando in Europa prende la medesima piega farsesca dei negazionisti a oltranza del Covid, non ci si deve meravigliare dello sbandamento totale diffuso in vasti strati di opinione pubblica. Uno sbandamento stavolta figlio e al tempo stesso specchio pure delle dichiarazioni del presidente dell’Anpi, effettivamente sbilanciate su un anomalo e singolare ‘neutralismo’. In compenso, basta leggere quanto detto dalla vicepresidente Albertina Soliani a Repubblica: “L’Anpi dovrebbe riconoscere decisamente la resistenza del popolo ucraino … Il dilemma di fornire armi attraversa la nostra coscienza: una difesa armata misurata è moralmente accettabile. Bisogna disarmare l’aggressore … L’aggressione all’Ucraina ha sconvolto il mondo e gli assetti post seconda guerra mondiale … La scelta di Putin è anche dettata dalla sua paura di fronte alle democrazie”. Ferma e risoluta Liliana Segre che, al Corriere della Sera, ha detto: “L’equidistanza non è possibile, il popolo ucraino è stato aggredito dai russi e la sua resistenza va sostenuta … È difficile in un anno come questo intonare Bella ciao senza volgere un pensiero agli ucraini che nelle scorse settimane si sono svegliati e hanno trovato l’invasore. Ciò non vuol dire ovviamente essere contro il popolo russo vittima delle decisioni disumane del suo leader”. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante il discorso in occasione dell’incontro con le associazioni combattentistiche e di arma per il 25 Aprile, ha detto: “L’attacco della Russia al popolo ucraino non ha giustificazioni … L’incendio appiccato alle regole della comunità internazionale appare devastante; destinato a propagare i suoi effetti se non si riuscisse a fermarlo subito, scongiurando il pericolo del moltiplicarsi, dalla stessa parte, di avventure belliche di cui sarebbe difficile contenere i confini. Per tutte queste ragioni la solidarietà, che va espressa e praticata nei confronti dell’Ucraina, deve essere ferma e coesa”. Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non che a inchiodarci alle nostre responsabilità di persone tuttora libere sono le immagini che da due mesi ci arrivano da quella terra annientata dai bombardamenti. Sono i servizi terribili che gli inviati continuano a mandare dalle tante Srebrenica ucraine entrate nella lista dei peggiori crimini di guerra del nostro tempo. Sono le tante intercettazioni in cui gli stessi russi parlano di saccheggi e di stupri, mentre in altre si sentono i giovani di leva confessare singhiozzanti ai parenti di non poterne più di quegli orrori. Sono le fosse comuni che affiorano ogni giorno, piene di cadaveri buttati lì per occultare le prove dei massacri. Sono le lacrime di tutte quelle donne avvolte nei loro poveri abiti da contadine alle quali nessuno potrà restituire il marito o il figlio fucilati all’istante e senza motivo. Una era Vanda Semyonovna Obiedkova ed era una bimba quando i nazisti fecero irruzione nella sua casa portando via sua madre, mentre lei riuscì a salvarsi nascondendosi in cantina. È morta per la fame e il freddo, implorando acqua, lo scorso 4 aprile in uno scantinato di Mariupol. Aveva 91 anni, proprio come Liliana Segre, per la quale questo 25 aprile è difficile “intonare Bella ciao senza volgere un pensiero agli ucraini”. In quel pensiero può esserci posto pure per una preghiera, anche laica, per Vanda e per le vittime e per i martiri delle guerre di ogni tempo.

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Diocesi

I ventitre anni di sacerdozio di don Giuseppe Costantino Zito

Festeggiato a Lizzano, nella chiesa madre San Nicola, l’anniversario del ministero: «A tutti voglio stringere la mano per offrire il conforto e la consolazione dell’amore misericordioso di Gesù!», le parole di don Giuseppe

26 Apr 2022

di Giangiacomo Santacroce

Domenica 24 aprile, nella festa liturgica Divina misericordia, la cittadina di Lizzano ha desiderato commemorare e festeggiare nella chiesa matrice parrocchiale “San Nicola” il ventitreesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale del proprio parroco, don Giuseppe Costantino Zito.

Veramente grande è stata la partecipazione dei fedeli, che hanno preso parte alla solenne eucaristia, egregiamente animata dal coro polifonico parrocchiale.

«Vi saluto tutti con fraterno affetto – ha esordito don Giuseppe – e vi ringrazio di tutto cuore per la vostra vicinanza come pure per aver voluto preparare e condividere con me questo singolare momento di spiritualità, di fraternità e di festa!»

L’antico tempio, particolarmente gremito di fedeli, è stato pure aggraziato da un accurato servizio liturgico, prestato dagli ormai numerosi ragazzi del gruppo ministranti, dalla presenza di alcuni concelebranti e da una schiera di giovani della parrocchia.

L’importante e suggestivo evento religioso ha dato modo a don Zito di esprimere i sentimenti più intimi del suo cuore sacerdotale. «Facendo viva memoria dello sguardo d’amore del Signore Gesù e della Sua chiamata a seguirLo più da vicino – ha affermato don Giuseppe – mi è caro ritornare al giorno memorabile della sacra Ordinazione e comprendere meglio, a distanza di anni, quanto lo Spirito Santo ha operato nella mia persona».

Poi, ha soggiunto: «ripercorrendo tutto il cammino finora compiuto, con il cuore sempre aperto alle sorprese dello Spirito, sono qui con voi questa sera per ripresentare al buon Pastore, dopo ventitre anni di vita ministeriale, il mio “sì” generoso, convinto e gioioso, rendendo al contempo fervide grazie a Lui, Pastore supremo, per il dono incommensurabile del sacerdozio».

Ha voluto infine esortare i suoi fedeli a nutrire sempre riconoscenza grande e devozione sincera per questo insigne dono, perché «Esso prolunga nel tempo ed attua nella storia la presenza dell’unico Pastore, il Cristo, dispensando i Suoi doni di misericordia e di vita, di consolazione e di grazia. A tutti – ha poi concluso don Giuseppe – voglio stringere la mano per offrire il conforto e la consolazione dell’amore misericordioso di Gesù! Desidero incoraggiare le famiglie e i nostri poveri, abbracciare i ragazzi e giovani, benedire gli ammalati!».

Sono stati in molti a fargli pervenire pensieri ed attestazioni augurali. Tra i tanti, la presidente dell’Azione Cattolica parrocchiale, prof.ssa Annamaria Marinaro e la responsabile dei catechisti, prof.ssa Elena Bolognino.

Costoro, a nome dei presenti e dell’intera comunità, gli hanno pubblicamente esternato «stima ed affetto, ammirazione e gratitudine per aver preso a cuore la vita della parrocchia; per l’apertura e la disponibilità umana; per il tratto affabile e gentile, cordiale ed accogliente; per la vicinanza ai ragazzi, ai giovani e alle famiglie, come pure ai tanti bisognosi del paese; per l’impegno audace e tenace nei lavori di ristrutturazione degli ambienti pastorali».

Prima della solenne benedizione, don Giuseppe – ricordando ai fedeli il costante impegno pastorale della parrocchia anche in tempo di pandemia, come pure la recentissima raccolta parrocchiale umanitaria pro Ucraina di ben tremila euro – ha invitato tutti a vivere sempre più intensamente il dono della comunione ecclesiale e a profondere, con l’entusiasmo della fede, rinnovate energie apostoliche per una più feconda ed incisiva azione missionaria sul territorio lizzanese.

L’impegno unitario in parrocchia è infatti teso nel cercare di incarnare e di tradurre in pratica pastorale la “Chiesa sinodale, misericordiosa e in uscita” tanto desiderata da papa Francesco come pure le annuali indicazioni pastorali del nostro arcivescovo.

In tal modo, l’annuncio del Vangelo viene a saldarsi con il sapiente disegno di un Umanesimo cristiano che, nel suo testimoniare la “vita nuova” che nasce dall’incontro con Gesù, si adopera con ogni mezzo per far comprendere a tutti come nella Chiesa ciascuno porti il suo bel mattone per contribuire a costruire quella che san Giovanni Paolo II amava chiamare la bella “civiltà dell’amore”!

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Sport

Karate, alla Premier League in Portogallo l’ultimo trionfo di Silvia Semeraro

26 Apr 2022

di Paolo Arrivo

La rivincita è arrivata. C’è sempre lei sulla mia strada… Stavolta ho avuto la meglio su Irina Zaretska. Il successo è arrivato alla Premier League di Matosinhos in Portogallo. La soddisfazione è doppia. Tripla, anzi: ho conquistato la prima medaglia d’oro dell’anno, sconfitto l’azera, la campionessa del mondo in carica, che avevo incontrato poco tempo fa. Certe “vendette” si consumano senza troppo aspettare. Alla vicecampionessa olimpica ho messo pressione durante l’incontro, per tutta la durata, finché gli arbitri mi hanno premiata. In finale ci sono arrivata sconfiggendo la greca Vasiliki Panetsidou, la portoghese Flavia Ribeiro e la tedesca Charlotte Grimm, negli incontri del girone; ai quarti ho avuto la meglio sull’austriaca Alisa Buchinger, sulla svizzera Elena Quirinci in semifinale. L’infortunio, che pure questa volta non mi sono fatta mancare, avrebbe potuto compromettere il mio percorso e l’esito finale. E invece eccomi qui a condividere con voi quest’ultimo risultato straordinario!

Chi scrive è Paolo Arrivo. Sono un giornalista e scrittore privilegiato, impegnato a seguire le gesta della campionessa di karate Silvia Semeraro, atleta vanto delle Fiamme Oro – gruppo sportivo della Polizia di Stato: un lavoro paziente e perseverante, il libro a lei dedicato, che potrebbe durare mesi, oppure anni. Paziente come lei che è sulla cresta dell’onda dalla prima volta in cui salì sul tatami. Nel mezzo ci sono tanti successi, tante medaglie, momenti di prova superati. Professionista meticolosa, instancabile, medaglia d’oro agli ultimi campionati italiani, lo scorso anno a Dubai si è laureata vicecampionessa mondiale. L’ultimo trionfo ci dice che la “Belva umana” è sempre affamata. Alla sua terra, a Taranto, dove è nata venticinque anni fa, continua ad essere legata: sa farne fonte di nutrimento, della quale cibarsi. Un rifugio costante. Noi ce ne rallegriamo e, quando prenderà la via di casa, l’aspettiamo!

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Editoriale

25 aprile: liberi, limpidi e diritti

Le ombre dell’odio, dello scontro e dell’indifferenza rimangono minacciose e neppure è prevedibile il loro dissolversi

26 Apr 2022

di Paolo Bustaffa

“Quanto più s’addensa e s’incupisce l’avversario facci liberi e intensi”: lo scrive nella “Preghiera del ribelle” Teresio Olivelli, ucciso a 29 anni nel campo di sterminio nazista di Hersbruck, colpevole di aver sottratto un giovane ucraino alla bestialità di un kapò.
Ufficiale degli alpini, aveva partecipato alla ritirata di Russia e aveva conosciuto la tragedia di uomini, soprattutto giovani, che andavano a morire per un delirio di onnipotenza dei dittatori del tempo.

Ribellatosi per amore della verità al regime fascista entrò nella Resistenza con i partigiani cattolici, le “Fiamme verdi”, che rifiutavano l’uso indiscriminato e spesso vendicativo delle armi, che si opponevano a condanne sommarie a morte chiedendo che fossero i legittimi tribunali a esprimere il giudizio.

Mentre infuria la guerra e cresce l’odio in terra europea il 25 aprile, riletto con le parole di un giovane proclamato beato il 3 febbraio 2018, si conferma memoria, monito e appello a ritrovare e vivere valori e ideali senza i quali in nessun tempo e in nessun luogo è stato ed è possibile prevenire o spezzare la spirale del terrore e dell’orrore.
La “Preghiera del ribelle” si accende oggi con le sue invocazioni: “facci liberi e intensi” nel distinguere l’aggredito dall’aggressore; “facci liberi e intensi” nella ricerca e nella rimozione delle cause di ogni conflitto; “facci liberi e intensi” nel dire che le armi non hanno mai portato e mai porteranno alla pace; “facci liberi e intensi” nell’accettare sacrifici pur di fermare la mano di Caino, “facci liberi e intensi” nel chiedere che l’unità dei cristiani sia al servizio della verità e non giustifichi alcuna menzogna.

Sono richieste di uomini liberi da letture ideologiche dei fatti, per uomini limpidi nel dire che la vittoria non è la pace, per uomini intensi nel condividere il pianto e la speranza.

Il 25 aprile suscita questi tre atteggiamenti interiori. Ha bisogno di uomini e donne ribelli alla falsità, al rifiuto dell’altro, all’indifferenza. Ha bisogno che la libertà venga compresa e amata nella consapevolezza che non si raggiunge una volta per tutte e che ogni giorno va compresa e difesa.
L’urlo di dolore e di disperazione che arriva dall’Ucraina come da altri Paesi lacerati da guerre scuote davvero le coscienze nel giorno in cui si celebra la liberazione da due dittature mentre si è vittime della follia di una terza?
Le ombre dell’odio, dello scontro e dell’indifferenza rimangono minacciose e neppure è prevedibile il loro dissolversi. In questo tempo lacerato venga dal 25 aprile un messaggio libero, limpido, diritto.

 

foto Ansa/Sir

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Solidarietà

Martedì 26, al teatro Argentina di Roma una serata in ricordo di Gino Strada

26 Apr 2022

Raccogliere l’eredità lasciata da Gino Strada e trasmettere una cultura di diritti e di pace: sarà questo il messaggio della serata-omaggio “Grazie Gino, continuiamo noi”, organizzata dai volontari di Emergency di Roma martedì 26 aprile alle ore 20.30 al teatro Argentina.

L’evento, realizzato con il patrocinio della Regione Lazio e dell’assessorato alla Cultura del Comune di Roma, si svolgerà alla presenza del sindaco Roberto Gualtieri, del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, della presidente di Emergency Rossella Miccio e di tanti artisti vicini a Emergency che racconteranno la storia e i valori dell’associazione. Tra questi, Elio Germano, Flavio Insinna, Greta Scarano, Massimiliano Bruno, Valentina Carnelutti e Neri Marcorè che si alterneranno sul palco per leggere alcuni estratti dell’ultimo libro di Gino Strada “Una persona alla volta” sui temi più cari all’organizzazione: pace, solidarietà, diritti umani e cure di elevata qualità accessibili a tutti.

Luca Barbarossa presenterà la serata, che avrà tra i suoi protagonisti Francesco Motta, Nada, Roy Paci, la Propaganda Orkestra e l’orchestra d’archi diretta da Luca Bagagli. Durante la serata, per la prima volta, sarà svelato al pubblico uno speciale arrangiamento della canzone “Quello che non ho” di Fabrizio De André dedicato a Emergency. A partire dalle  ore 18, inoltre, nella sala Squarzina del teatro Argentina si aprirà una  mostra collettiva con le opere originali e inedite sul tema “Grazie Gino, continuiamo noi” di importanti autori di  fumetti e illustrazioni: Giacomo Bevilacqua e Zerocalcare, Mauro Biani, Roberto Hikimi Blefari, Paolo Campana-Ottokin, Cecilia Campironi, Alberto Casagrande, Stefano Disegni, Er Pinto, Camilla Falsini, Anna Formilan-NiNi, Marta Gerardi, Gli scarabocchi di Maicol e Mirco, Riccardo Guasco, Gud-Daniele Bonomo, Laika, Fabio Magnasciutti, Makkox, Manuela Marazzi, Stefano Piccoli S3KENO, Francesco Poroli, Irene Rinaldi, Giulia Rosa, Mattia Surroz e Lorenzo Terranera.  Sarà esposta anche l’acquerello su carta realizzato da Milo Manara in omaggio a Gino Strada, donata a Emergency dall’artista.

L’organizzazione in 28 anni di vita ha aperto ospedali, posti di primo soccorso e centri sanitari, curando più di 12 milioni di persone in 19 Paesi.

L’evento è a ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria.

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Diocesi

Quattro nuovi diaconi al servizio dell’arcidiocesi di Taranto

25 Apr 2022

di Marina Luzzi

 

Sabato 23 aprile, nella Concattedrale “Gran Madre di Dio”, l’arcivescovo Filippo Santoro ha ordinato quattro nuovi diaconi

I nostri auguri a don Antonio, don Cosimo, don Giorgio e don Michele.

In occasione dell’ordinazione, abbiamo ascoltato le loro testimonianze.

 

 

Antonio Di Reda
Quando tutto sembra già scritto, la vita, il destino o Dio, ci mettono lo zampino. Così è successo ad Antonio Di Reda, 42 anni. La sua è la storia di una vocazione adulta, che ha scompaginato una vita già scritta: il lavoro di anni come responsabile elettrico di una ditta dell’appalto ex Ilva, una busta paga di 1400 euro al mese, un mutuo, una casa tutta sua. «Percepivo però che qualcosa mi mancava»- racconta oggi, a poche ore dalla consacrazione a diacono da parte dell’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, nella Concattedrale Gran Madre di Dio. «Paradossalmente io mi sono avvicinato a Dio, allontanandomene. Ho sempre avuto un legame forte con la Chiesa.

Quando ho avvertito che tutto era compiuto, la mia vita scritta, casa, lavoro, fidanzata, ho sentito altrettanto fortemente che mi mancava qualcosa. Se ero in parrocchia o partecipavo alle funzioni, questa inquietudine veniva meno, lì stavo proprio bene. Così ho cominciato a ricercare il senso della felicità autentica. Avevo 33 anni, per due anni ho partecipato agli incontri vocazionali a Poggio Galeso, ai tempi con don Giovanni Chiloiro e poi con don Davide Errico. Quando ero ormai convinto c’è stato lo stop dell’arcivescovo che mi ha detto di risolvere prima una serie di aspetti pratici, prima dell’anno propedeutico. Dovevo ad esempio trovare una soluzione per il mutuo della casa. Dopo mi sono dedicato al mio cammino, con il seminario maggiore che ho frequentato a Molfetta. Ora, fino a giugno, do una mano a don Francesco Tenna, che è nella parrocchia Spirito Santo, quella dove sono cresciuto, a due passi da dove abito e mi sento felice». Chi ha frequentato questa comunità negli anni ’90, Antonio lo ricorda scout. «Ci sono entrato per gioco. Prima di me avevano iniziato il cammino i miei cugini di Ginosa Marina e ne erano entusiasti. Allora io provai con il gruppo che stava nascendo vicino casa, il Taranto 17. Avevo 11 anni. È stato un percorso che mi ha fatto crescere ed avere grandi testimonianze anche sacerdotali. Ricordo gli anni con don Fiorenzo Spagnulo, con cui ho imparato che un prete deve anche essere pratico, operativo, sporcarsi le mani, pulire le grate, fare lavoretti. Le storie sono tante, gli esempi bellissimi: don Giuseppe Zito e poi don Ciro Santopietro, don Martino Mastrovito, don Giuseppe Marino e adesso in ultimo don Angelo Baldassarre e don Marco Peluso, che erano seminaristi mentre io iniziavo. Guardando a loro ho capito di voler essere un sacerdote che sia testimone credibile, nel fare, nell’accogliere storie, nel pregare e nell’insegnare come pregare. Un sacerdote tra la gente e non solo nella sagrestia». Una delle difficoltà che si hanno quando si scopre una vocazione è quella di non sentirsi all’altezza. In un mondo basato sulla performance, scambiamo Dio per un datore di lavoro che ci vuole sempre efficienti e sul pezzo ma l’amore non ha a che fare con la resa, non mette voti, non giudica, non è meritrocratico e talvolta neanche giusto. La chiamata di Dio, la scelta di seguirlo, restano un mistero a cui non si può decidere di rispondere facendo leva solo sulla propria forza di volontà. Questo sembra dire Antonio, raccontandosi.

«La svolta è arrivata all’inizio del terzo anno di seminario maggiore a Molfetta. È come se avessi fatto un salto- spiega- che mi ha fatto comprendere che Dio voleva me, nonostante la mia imperfezione, nonostante non mi sentissi degno di una chiamata così importante e questo ha significato guadagnare in libertà e capire che questo cammino con Lui mi rendeva tanto felice». 

Due figure bibliche lo hanno guidato finora lungo il percorso: Mosé perché «grazie a un parallelismo con la mia vita, mi ha aiutato a riscoprire la presenza di Dio dentro di me e san Paolo, per il suo continuo interrogarsi sulla dignità dell’essere discepolo e nel mio caso sacerdote, persona». E mentre Antonio prende consapevolezza che manca davvero poco perché ci sia questo ulteriore e ultimo passaggio necessario per diventare sacerdote, il pensiero va già al futuro, diviso tra il desiderio di rimanere a casa «quella parrocchia intitolata allo Spirito Santo che è stata davvero una seconda famiglia, un riferimento continuo e le nuove esperienze che mi attenderanno, ovunque possano portarmi. Tutto è arricchimento e scoperta»-dice- con la gioia di chi sa che il meglio deve ancora venire.

 

 

 

Michele Monteleone
«Sono un ragazzo di parrocchia». Lo dice con pudore, la voce emozionata, quasi balbettante, Michele Monteleone. Intenerisce e al contempo è testimonianza forte di fede nella sua ordinaria quotidianità, la storia di questo ventiseienne di san Giorgio Jonico, che questo pomeriggio l’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, ordina diacono, ultimo passo verso il sacerdozio. Una grande passione per il calcio, per l’arbitraggio, messa da parte quando si è chiesto se la felicità fosse tutta lì o se servisse qualcosa in più, un senso più grande, per addormentarsi sereni e contenti tutte le sere. «Io abito a san Giorgio Jonico e ho sempre frequentato la parrocchia più antica del paese, santa Maria del Popolo.  Facevo il secondo o terzo anno di scuola superiore quando mi sono allontanato. Ero arbitro di calcio, uno sport che non mi permetteva di essere presente a Messa la domenica, di seguire un cammino con costanza. La mia vocazione è partita controtendenza, da una mancanza. Arrivata la sera, mi domandavo se quello che avevo fatto mi aveva reso felice. Sentivo un’inquietudine. Ho quindi deciso di abbandonare, di fare qualcosa di più serio. Negli incontri giovanili e in quelli con i Servi della sofferenza, pian piano è maturata la scelta e rileggendo la mia storia, ho capito che il Signore voleva portarmi proprio qui». Un percorso condiviso nel segno dell’amicizia con Cosimo Porcelli (intervista a parte, ndr) anche lui oggi consacrato diacono. «Con lui abbiamo fatto il seminario insieme. Abbiamo iniziato l’undici ottobre 2015. Sono contento di aver condiviso con lui questi sei anni e continueremo a condividere questa esperienza, perché anche dopo essere divenuti diaconi, rimarremo a Roma per terminare le specializzazioni. Io in particolare sto studiando Teologia sacramentaria».

Quando si immagina sacerdote, Michele pensa «ad un uomo in mezzo alla gente. Di carattere sono espansivo, mi piace chiacchierare, ascoltare le storie delle persone. A Roma, nell’esperienza di servizio fatta nelle parrocchie, nella Caritas, in una casa famiglia, l’ho capito ancora di più».

Se gli chiedi quali sono i suoi riferimenti spirituali, Michele non ha dubbi, si esalta e trasuda entusiasmo nello slang della sua età. «Beh, san Pio è il top. Un altro livello, proprio, come confessava lui, nessuno…poi c’è Paolo VI. Hai mai letto di lui? Una sensibilità e una profondità spirituale incredibile ma poi la capacità letteraria, la sua testimonianza. Loro due posso dire che mi accompagnano nel cammino». E forse anche qualcun altro. Il prozio, fratello del nonno, a sua volta prete diocesano.  «Forse anche per questo i miei hanno accolto bene la mia scelta, da subito. Un prete in famiglia eravamo abituati ad averlo. Certo, le mamme sono sempre quelle che vogliono capire un po’ di più ma non ci sono state difficoltà. Poi non ho deciso proprio subito: dopo il diploma, per un anno, mentre approfondivo la mia vocazione seguito da quello che ora è il mio parroco, don Gianpiero Savino, facevo tirocinio per diventare geometra». Poi un consiglio a chi è nel dubbio, sta cercando la sua strada, a prescindere da quale essa sia. «Ad un giovane come me direi: “fai verità”. Se non ti conosci, non saprai mai cosa fare nella vita, come spenderla. Mi sono interrogato tanto anche sulla rinuncia ad una famiglia per la scelta di diventare prete. Tutto sta nel desiderio. Il mio desiderio di essere sacerdote è più forte di tutto, dei dubbi che possono sempre ripresentarsi ma che si affrontano con serenità, nella consapevolezza della scelta. Io dico sempre che anche se ti sposi rinunci. Rinunci a tutte le altre per una donna soltanto. Lo stesso vale per il sacerdozio. Se il Signore è la tua priorità, affronti ogni problema, ogni incertezza. E poi la costanza si allena. Non puoi entrare in piscina e pensare di nuotare per ore, se non sei allenato. Un orticello cresce in base a come lo curi». E il suo sta crescendo proprio bene.

 

 

 

Cosimo Porcelli
La vocazione di Cosimo Porcelli è un altro frutto del carisma dell’Istituto Servi della Sofferenza di San Giorgio, guidato da don Pierino Galeone. Venticinquenne, originario della parrocchia tarantina di san Nunzio Sulprizio «io abito proprio lì a due passi, è la mia seconda casa – spiega- e sono molto legato al parroco don Giuseppe Carrieri, che a sua volta segue il carisma e mi ha fatto conoscere questa realtà», anche Cosimo, nel pomeriggio di oggi in Concattedrale, è stato consacrato diacono dall’arcivescovo della diocesi ionica, mons. Filippo Santoro. Sono lontani i tempi del catechismo, quando si annoiava se doveva scrivere e riscrivere passi del Vangelo sul suo quaderno, solo perché l’aiutante catechista ogni tanto non sapeva come tenere a bada bambini vivaci e felici. «Mia zia prestava questo servizio in comunità ed era lei a tenerci che frequentassi. Quando arrivò la Cresima fui felice che fosse finita e per un anno non ne volli sapere. Il mio approccio cambiò radicalmente quando, frequentando le medie, mi proposero di seguire il cammino dei giovanissimi di Azione Cattolica. Ne fui conquistato. Mi si aprì un mondo e poi venne la conoscenza dei Servi, gli incontri giovanili con loro e ancora quelli vocazionali. Così ho incontrato don Pierino Galeone, che è attualmente il mio padre spirituale. Mi piace sottolineare padre perché sento che è davvero questo per me. Con i suoi 95 anni mi comprende, mi vuole un bene dell’anima e non mi ha mai legato a lui ma a Gesù, dandomi la giusta luce e prospettiva ogni volta che sperimentavo la mia fragilità. E insieme ad un padre ho trovato anche una madre spirituale in Giorgina Tocci, che è la prima figlia spirituale dei Servi e mi ha preso per mano dal primo momento». Altra esperienza fondamentale per la formazione di Cosimo sono gli studi al Pontificio Seminario Romano Maggiore.

«Vivo a Roma  da sette anni, compreso il propedeutico, ed è stata una finestra sul mondo della cristianità. Al Romano – racconta – ci sono tre amori: il primo è l’Eucarestia e poi il Papa e la Madonna. Questi sono stati i riferimenti in questi anni di formazione bellissimi». 

Anni in cui, nel suo servizio, ha incontrato un’umanità varia, di cui si è innamorato. «Ho svolto il mio servizio nella parrocchia di san Basilio, che si trova in una zona che è centrale nello spaccio di droghe della città. Lì ho incontrato tante ferite, tante storie e ho imparato a servire, che poi è il carisma dei Servi della Sofferenza. Un’esperienza di umanità unica, così come quella in una casa famiglia chiamata Ain Karim, dove sono stata accanto a bambini senza genitori. È stato un anno, l’anno dell’accolitato, quello tradizionalmente dedicato alla carità, in cui io vivevo proprio con loro nel fine settimana, in un appartamento attiguo. Ho prestato servizio anche a Santa Maria delle Grazie, al Trionfale, una zona ricca ma al contempo molto povera spiritualmente, nei valori. Ho visto tante persone che sembravano essersi dimenticate di Dio, pensando solo al superfluo eppure proprio lì ho capito che prete vorrei essere: uno che si sappia sedere accanto, portare Gesù alla gente senza mettermi al centro. La gente è assetata di Dio, non di me, di come mi presento, della mia simpatia o del mio carattere. Non mi interessa rendermi accattivante ma mostrare con l’esempio ai ragazzi la bellezza di Gesù che mi ha conquistato e può conquistare anche loro. Ecco, per me il prete è questo. Ora che sono al sesto anno romano mi hanno assegnato alla parrocchia di santa Lucia, nei pressi di piazzale Clodio. Un’esperienza completamente diversa, perché è una comunità molto anziana. Questi vecchietti però sono splendidi, pronti a donare il loro cuore, i loro racconti di vita. Anche da loro sto imparando tanto». Appassionato della storia e della testimonianza di sant’Ambrogio «il mio idolo, senza di lui non ci sarebbe stato Agostino vescovo. Grande profondità ma un modo semplice di parlare, nel libro ‘I doveri’ tratteggia la figura del ministro e traccia una scia», Cosimo ha da poco terminato il quinquennio filosofico-teologico e attualmente si sta specializzando in ricerca teologica patristica, uno studio approfondito sui padri della cristianità. Oggi in famiglia sono tutti felici della sua scelta ma non è stato sempre così. «Non fu facile comunicarlo. L’ho detto prima a mia madre e poi con lei a papà. Ci fu silenzio per mesi a casa mia. I miei credevano ma non erano partecipi della vita di comunità. Passata l’estate, quando dissi che sarei andato a Roma per proseguire gli studi insieme al mio amico Michele Monteleone (anche lui oggi diacono, intervista a parte, ndr) si tranquillizzarono, sentii che era già cambiato qualcosa. Con il passare degli anni, vedendo la mia convinzione e la felicità per il percorso intrapreso, entrambi hanno compreso, fino ad esserne contenti. Ne sono nati anche percorsi di vita nuovi: per esempio da quando anche mia sorella è fuori, a Bologna, mia madre ha cominciato di sua iniziativa a svolgere volontariato alla Caritas diocesana. Anni fa non lo avrei creduto». Per dirla come una celebre canzone italiana, “Come si cambia, per amore”.

 

 

Giorgio D’Isabella
Questa è la storia di due amici nati lo stesso giorno, che hanno scelto Dio nello stesso periodo, spronandosi, entusiasmandosi e dandosi coraggio e forza nella fatica. È la storia di Marco, divenuto frate Marco, e di Giorgio, oggi consacrato diacono in Concattedrale dall’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Santoro, sotto l’occhio fraterno proprio di quell’amico, che quando non aveva tanta voglia lo chiamava per dirgli: “Dai, vediamoci a Messa”. Giorgio D’Isabella ha 26 anni e dopo la scuola e un anno propedeutico a Molfetta, si è trasferito all’Almo Collegio Capranica, per formarsi e divenire sacerdote. Da poco ha finito il primo ciclo di teologia e ora si sta specializzando in filosofia all’Università Sapienza. «Io e Marco siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno, il 21 ottobre del 1995. Abbiamo frequentato parrocchie diverse ma è stato lui a sollecitarmi ed invogliarmi a tornare a Messa quando entrambi stranamente ci confessavamo di sentirci attratti da una vita diversa, a servizio di Dio. Nella mia parrocchia, Maria Santissima Addolorata – prosegue Giorgio – ho preso tutti i sacramenti ma dopo la Cresima sono scappato. Il ritorno a Gesù è nato grazie agli amici, vedendo come in loro la fede stava agendo. Mi chiedevo come mai la loro vita fosse cambiata così tanto. E poi c’era il mio amico confidente Marco. Lui aveva una famiglia molto vicina alla comunità, la mia era nel limbo, né fuori, né dentro, una famiglia credente ma non praticante che non mi ha ostacolato ma all’inizio era disorientata, fatta eccezione per mia sorella, del movimento Comunione e Liberazione, che si era mostrata subito dalla mia parte. Marco mi ha tanto incoraggiato quando sentivo questa chiamata. Era un periodo pieno di dubbi, c’è stato anche un fidanzamento ma non era quello il piano di Dio per me, lo sentivo e oggi posso dirlo con certezza». Per Giorgio è stato molto importante anche don Amedeo Basile, parroco della Santissima Addolorata.

«Ricordo che sentivo dentro questa chiamata ma non ne parlavo. Una domenica di Quaresima, don Amedeo disse durante l’omelia che quello era il tempo in cui il cristiano doveva maturare nella fede e non rimanere così com’è. Questa frase e la comunione presa quel giorno, mi diedero coraggio. Andai da lui chiedendogli semplicemente come fare a crescere in un cammino del genere. Lui mi chiese a bruciapelo: “ma tu hai mai pensato di farti prete?” Gli risposi di sì e da lì è iniziato il percorso con lui e con una splendida comunità, che in questi anni mi ha davvero custodito e accompagnato lungo il cammino, rendendomi testimonianza dell’affetto materno della Chiesa».

Fondamentale per Giorgio la scelta degli studi a Roma nel collegio. «Un’esperienza che mi ha fatto maturare nel confronto schietto con i superiori e con i compagni e mi ha aperto la mente, visto che ci sono alunni da tutto il mondo e di ogni fascia di età e sacerdoti e diaconi con cui confrontarsi. È interessante che il più piccolo, appena arrivato, viva e veda già chi ha finito il percorso: serve a smontare fantasie. Vedi davanti a te quello che sarai, così da conoscere la realtà e capire fino in fondo se è quello che vuoi». Chiediamo a Giorgio che tipo di prete vorrebbe essere di qui a qualche mese. «Non ho un’ideale. Io so di essere Giorgio. Dunque resterò me stesso anche da prete. Un prete che fa il prete come don Pino Pugliesi. Conoscendo meglio la sua figura mi accorgo che lui non fu un prete anti-mafia ma un sacerdote che svolgeva a pieno le sue funzioni ed è questo che lo ha portato ad avere persecuzioni e infine morire.    Lui è morto sorridendo al suo carnefice, quale morte più simile a quella di Gesù? Questo mi insegna che nelle difficoltà che vivrò non dovrò in un certo senso mettermi di traverso o andare contro qualcuno. Aiutare, soprattutto i bambini ai margini, facendo il prete. Solo il prete».

 

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Libri

La Resistenza dei cattolici contro i regimi nazifascisti

Si intitola “Il soffio dello Spirito” il nuovo volume dello storico Giorgio Vecchio che ricostruisce la presenza dei cattolici nelle formazioni partigiane in numerosi Paesi europei contro i regimi di Hitler e Mussolini. Motivazioni religiose e morali si accompagnavano a sentimenti libertari e democratici. Ci furono forme di Resistenza “civile” (per esempio con l’opera di salvataggio di ebrei e perseguitati), accanto a quella operata con il ricorso alle armi. “Il vero problema di coscienza, allora, non era sull’uso delle armi, ma sulla liceità o meno di usarle in mancanza di un’autorità politica legittima”

25 Apr 2022

Scrivere una storia comparata della presenza dei cattolici nelle Resistenze dei vari Paesi europei: un’impresa complessa, cui si è dedicato a lungo Giorgio Vecchio, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Parma, presidente del Comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi e di quello della Fondazione Don Primo Mazzolari. Vecchio ha speso anni di studio sulla Resistenza in Italia, con una specifica attenzione al contributo dei cattolici. Ora vede la luce, alla vigilia del 25 aprile, Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (ed. Viella). Un volume basato su un’ampia storiografia in più lingue e sulla rilettura della stampa clandestina, oltre che di svariate testimonianze: ne emergono le vicende di Paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, e naturalmente Italia.

Professore, la Resistenza, anzi le Resistenze sono state studiate e raccontate dai primi anni del dopoguerra fino a oggi. Quale la specificità di questo suo libro?
È vero, possediamo biblioteche intere sulle diverse forme di Resistenza contro l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Però, quasi tutte non superano i rispettivi confini nazionali. In più, esistono gli ostacoli linguistici. Io mi sono concentrato sul comportamento dei cattolici e sulle loro scelte resistenziali. Per questo motivo ho considerato unitariamente i Paesi con una consistente o maggioritaria presenza di popolazione cattolica: quelli dell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Paesi Bassi) e dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia). A essi ho aggiunto l’Italia, ma anche Germania e Austria, dove la Resistenza antinazista non ha avuto per lo più risvolti armati, ma si è mossa sul piano politico e morale.

 

È possibile, storiograficamente, “comparare” le forze resistenziali al nazi-fascismo che hanno operato nei diversi Paesi europei?
La comparazione è sempre possibile e però deve tener conto di molti fattori. Anzitutto un fattore cronologico, determinato dalle fasi dell’occupazione tedesca: la Polonia è invasa nel 1939, l’Europa occidentale nel 1940, l’Urss nel 1941, l’Italia nel 1943… Esiste poi una cronologia resistenziale differente: i polacchi cercano di organizzare subito uno Stato clandestino, di straordinario rilievo; in Francia, Belgio e Paesi Bassi bisogna aspettare la svolta del 1942-1943, quando l’imposizione del lavoro obbligatorio nelle fabbriche tedesche impone di scegliere tra il sostegno diretto e personale al nemico o il passaggio alla clandestinità. In Italia, la Resistenza inizia con l’8 settembre 1943.

Bisogna poi considerare i differenti comportamenti dei tedeschi, determinati da motivi razziali: l’occupazione è molto soft in Danimarca e inizialmente anche in Olanda e nelle Fiandre, mentre è spietata in Polonia e poi in Urss dove assume connotati di snazionalizzazione e di sterminio. I nazisti, inoltre, variano da politiche che lasciano vivere le strutture dello Stato esistente ad altre di diretta occupazione militare, mentre tentano altrove la strada dei governi “fantoccio”: la repubblica di Vichy in Francia, la Repubblica sociale italiana, il regime di mons. Tiso in Slovacchia o quello di Pavelić in Croazia.

 

Cattolici e Resistenza in Europa, il tema specifico di questa ricerca: quali le motivazioni che spinsero ad opporsi al nazismo?
Le motivazioni sono diverse e muovono per lo più dalla comprensione del pericolo del nazismo, anche se in tutti i Paesi occupati esiste una componente cattolica, fortunatamente marginale, che ritiene possibile una convivenza positiva con il nazismo. Invece, i cattolici più avvertiti ritengono che ciò è impossibile e contrario alla fede. Molti di loro hanno studiato a fondo l’enciclica di Pio XI del 1937, Mit brennender Sorge, e sono consapevoli dei pericoli. Penso in particolare al gruppo di gesuiti, tra cui il padre de Lubac, e di laici che in Francia dà vita ai “Cahiers du Témoignage chrétien”, che sono quaderni monografici ricchissimi di documentazione e di “contro-informazione”. La motivazione – diciamo così – religioso-morale è poi rafforzata dai convincimenti patriottici e da quelli democratici, che una parte dei cattolici europei possiede.

 

Nel libro lei solleva la questione dell’uso delle armi: perché?
Perché contesto le letture che sono state fatte negli ultimi decenni. Sommariamente, dico questo: dapprima la Resistenza è stata interpretata come un atteggiamento esclusivamente armato e a larga guida comunista; poi si sono rivalutate le forme di Resistenza “civile” e “non armata” (per esempio con l’opera di salvataggio di ebrei e perseguitati). Al punto, però, che questa seconda interpretazione – molto consona per i cattolici – ha confinato nel limbo le forme di lotta armata.

In verità, i cattolici della prima metà del Novecento erano stati tutti educati all’uso delle armi. La dottrina della “guerra giusta” era pacificamente accettata e, semmai, ogni Stato e ogni episcopato la volgeva a proprio vantaggio. Perciò non esistevano e non potevano esistere forme di non-violenza o di obiezione di coscienza. Non è un caso che opposizioni del genere si siano sviluppate all’interno del Reich, dove una Resistenza armata contro Hitler era impensabile. Non solo i ragazzi della Rosa Bianca, ma anche preti come Max Josef Metzger – che uomo straordinario! – o laici come i beati Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser ci hanno lasciato un’eredità inestimabile. Il vero problema di coscienza, allora, non era quello sull’uso delle armi, ma sulla liceità o meno di usarle in mancanza di un’autorità politica legittima. Ciò vale soprattutto per gli italiani e per i francesi, mentre altrove l’esistenza di un governo clandestino o in esilio non poneva questo problema. Anche figure leggendarie (e mitizzate) come Teresio Olivelli le armi le usavano o, quanto meno, le raccoglievano per farle usare da altri. Mi viene da sorridere, in questi giorni, nel pensare che Olivelli dirigeva i tiri dei cannoni italiani per uccidere i nemici russi: ovviamente lo ricordo come un’amara battuta, visto che allora era l’Italia il Paese aggressore. Aggiungo ancora che, in tutta l’Europa occupata, conventi e canoniche nascondevano armi, senza porsi troppi scrupoli morali.

 

C’è una “specificità italiana”, e del cattolicesimo italiano, nella vicenda resistenziale?
La specificità è data dalla nostra storia: quella appunto di uno Stato aggressore (l’elenco dei Paesi che abbiamo aggredito è bello lungo…), sconfitto sul campo e poi soggetto a un brusco cambio di regime e a una duplice occupazione straniera. La presenza cattolica nella Resistenza italiana è molto più vasta e numerosa di quel che di solito si pensa: paghiamo il prezzo di troppe rimozioni degli stessi cattolici e di troppi tentativi monopolistici da parte soprattutto comunista. Esistono ampie aree del Paese dove le formazioni cattoliche erano predominanti, mescolandosi magari con resistenti provenienti dal Regio Esercito, specie dai reparti alpini. Bisogna anche uscire dagli schematismi: nelle stesse brigate Garibaldi esistevano comandanti marcatamente cattolici (Aldo Gastaldi “Bisagno” in Liguria o Luigi Pierobon “Dante” in Veneto, per dirne solo due).

Le differenze tra cattolici e comunisti emergevano – non solo in Italia – nelle modalità di conduzione della lotta armata, nel maggior o minore grado di ferocia da usare o nella valutazione dei rischi di coinvolgimento della popolazione civile.

La formula fortunata dei “ribelli per amore” è però stata spesso distorta, quasi che i cattolici partigiani non volessero usare le armi. Identificava invece un atteggiamento diverso nei confronti del nemico, che andava combattuto, ma non odiato e, se possibile, salvato, oltre che un riferimento alle motivazioni anzitutto morali della Resistenza, prima che politiche.

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Sport

La fortuna non gira per la Prisma, sconfitta ancora nella Playoff Challenge cup

25 Apr 2022

di Paolo Arrivo

L’approccio non era stato dei migliori, a guardare il risultato più che la prestazione (sconfitta a Verona per 3-0), complice le assenze sul parquet di gioco; ma l’appendice di campionato, cinque partite utili all’accesso in Europa, alla Challenge Cup, resta un’esperienza positiva quanto inattesa. Lo è nonostante il secondo ko inflitto dalla Gas Sales Bluenergy Piacenza nella seconda giornata dei playoff per il quinto posto. Una sconfitta ancora più dolorosa perché subita dalla Gioiella Prisma tra le mura amiche del Palamazzola: un altro secco 3-0 (25-27, 20-25, 24-26) che lascia spazio a recriminazioni. Gli ionici infatti hanno combattuto in ogni frazione di gioco. Ma la pallavolo è quello sport dove la squadra che ha perso per 3-0, con un pizzico di fortuna o di lucidità in più, col medesimo risultato, avrebbe potuto vincere. Le partite poi vengono condizionate dagli episodi. Gli stessi sono stati favorevoli agli ospiti che, partiti col piede giusto (3-0), hanno acquisito e mantenuto un leggero vantaggio sino alla rimonta finale della Prisma (24-24). Nel secondo set il divario è cresciuto. Nel terzo, per la prima volta a condurre sono stati gli uomini di Vincenzo Di Pinto, che ha schierato Falaschi in cabina di regia; poi lotta punto su punto, finché il muro vincente di Gironi ha offerto a Taranto la possibilità di riaprire l’incontro con un set point, non sfruttato a dovere. Il punto della vittoria porta la firma di Russell.

Onore alla formazione allenata dal grande Lorenzo Bernardi – gli emiliani hanno vendicato la sconfitta di due mesi fa in regular season. Sugli scudi Lagumdzija, come si prevedeva, miglior giocatore con 17 punti. Nonostante la doppia sconfitta, la Prisma è uscita tra gli applausi di un pubblico che sarebbe potuto essere più numeroso, se fosse stato accolto l’appello lanciato dalla società alla vigilia, per riempire il Palamazzola. Prossima sfida mercoledì sera sul campo del Cisterna.

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Ecclesia

Giorgio D’Isabella: “Il dono dell’amicizia mi ha portato fin qui”

23 Apr 2022

di Marina Luzzi

Questa è la storia di due amici nati lo stesso giorno, che hanno scelto Dio nello stesso periodo, spronandosi, entusiasmandosi e dandosi coraggio e forza nella fatica. È la storia di Marco, divenuto frate Marco, e di Giorgio, oggi consacrato diacono in Concattedrale dall’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Santoro, sotto l’occhio fraterno proprio di quell’amico, che quando non aveva tanta voglia lo chiamava per dirgli: “Dai, vediamoci a Messa”. Giorgio D’Isabella ha 26 anni e dopo la scuola e un anno propedeutico a Molfetta, si è trasferito all’Almo Collegio Capranica, per formarsi e divenire sacerdote. Da poco ha finito il primo ciclo di teologia e ora si sta specializzando in filosofia all’Università Sapienza. «Io e Marco siamo nati lo stesso giorno dello stesso anno, il 21 ottobre del 1995. Abbiamo frequentato parrocchie diverse ma è stato lui a sollecitarmi ed invogliarmi a tornare a Messa quando entrambi stranamente ci confessavamo di sentirci attratti da una vita diversa, a servizio di Dio. Nella mia parrocchia, Maria Santissima Addolorata – prosegue Giorgio – ho preso tutti i sacramenti ma dopo la Cresima sono scappato. Il ritorno a Gesù è nato grazie agli amici, vedendo come in loro la fede stava agendo. Mi chiedevo come mai la loro vita fosse cambiata così tanto. E poi c’era il mio amico confidente Marco. Lui aveva una famiglia molto vicina alla comunità, la mia era nel limbo, né fuori, né dentro, una famiglia credente ma non praticante che non mi ha ostacolato ma all’inizio era disorientata, fatta eccezione per mia sorella, del movimento Comunione e Liberazione, che si era mostrata subito dalla mia parte. Marco mi ha tanto incoraggiato quando sentivo questa chiamata. Era un periodo pieno di dubbi, c’è stato anche un fidanzamento ma non era quello il piano di Dio per me, lo sentivo e oggi posso dirlo con certezza». Per Giorgio è stato molto importante anche don Amedeo Basile, parroco della Santissima Addolorata. «Ricordo che sentivo dentro questa chiamata ma non ne parlavo. Una domenica di Quaresima, don Amedeo disse durante l’omelia che quello era il tempo in cui il cristiano doveva maturare nella fede e non rimanere così com’è. Questa frase e la comunione presa quel giorno, mi diedero coraggio. Andai da lui chiedendogli semplicemente come fare a crescere in un cammino del genere. Lui mi chiese a bruciapelo: “ma tu hai mai pensato di farti prete?” Gli risposi di sì e da lì è iniziato il percorso con lui e con una splendida comunità, che in questi anni mi ha davvero custodito e accompagnato lungo il cammino, rendendomi testimonianza dell’affetto materno della Chiesa». Fondamentale per Giorgio la scelta degli studi a Roma nel collegio. «Un’esperienza che mi ha fatto maturare nel confronto schietto con i superiori e con i compagni e mi ha aperto la mente, visto che ci sono alunni da tutto il mondo e di ogni fascia di età e sacerdoti e diaconi con cui confrontarsi. È interessante che il più piccolo, appena arrivato, viva e veda già chi ha finito il percorso: serve a smontare fantasie. Vedi davanti a te quello che sarai, così da conoscere la realtà e capire fino in fondo se è quello che vuoi». Chiediamo a Giorgio che tipo di prete vorrebbe essere di qui a qualche mese. «Non ho un’ideale. Io so di essere Giorgio. Dunque resterò me stesso anche da prete. Un prete che fa il prete come don Pino Pugliesi. Conoscendo meglio la sua figura mi accorgo che lui non fu un prete anti-mafia ma un sacerdote che svolgeva a pieno le sue funzioni ed è questo che lo ha portato ad avere persecuzioni e infine morire.    Lui è morto sorridendo al suo carnefice, quale morte più simile a quella di Gesù? Questo mi insegna che nelle difficoltà che vivrò non dovrò in un certo senso mettermi di traverso o andare contro qualcuno. Aiutare, soprattutto i bambini ai margini, facendo il prete. Solo il prete».

 

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Diocesi

Cosimo Porcelli: “Vorrei essere un prete capace di sedersi accanto a chi ha bisogno”

23 Apr 2022

di Marina Luzzi

La vocazione di Cosimo Porcelli è un altro frutto del carisma dell’Istituto Servi della Sofferenza di San Giorgio, guidato da don Pierino Galeone. Venticinquenne, originario della parrocchia tarantina di san Nunzio Sulprizio «io abito proprio lì a due passi, è la mia seconda casa – spiega- e sono molto legato al parroco don Giuseppe Carrieri, che a sua volta segue il carisma e mi ha fatto conoscere questa realtà», anche Cosimo, nel pomeriggio di oggi in Concattedrale, è stato consacrato diacono dall’arcivescovo della diocesi ionica, mons. Filippo Santoro. Sono lontani i tempi del catechismo, quando si annoiava se doveva scrivere e riscrivere passi del Vangelo sul suo quaderno, solo perché l’aiutante catechista ogni tanto non sapeva come tenere a bada bambini vivaci e felici. «Mia zia prestava questo servizio in comunità ed era lei a tenerci che frequentassi. Quando arrivò la Cresima fui felice che fosse finita e per un anno non ne volli sapere. Il mio approccio cambiò radicalmente quando, frequentando le medie, mi proposero di seguire il cammino dei giovanissimi di Azione Cattolica. Ne fui conquistato. Mi si aprì un mondo e poi venne la conoscenza dei Servi, gli incontri giovanili con loro e ancora quelli vocazionali. Così ho incontrato don Pierino Galeone, che è attualmente il mio padre spirituale. Mi piace sottolineare padre perché sento che è davvero questo per me. Con i suoi 95 anni mi comprende, mi vuole un bene dell’anima e non mi ha mai legato a lui ma a Gesù, dandomi la giusta luce e prospettiva ogni volta che sperimentavo la mia fragilità. E insieme ad un padre ho trovato anche una madre spirituale in Giorgina Tocci, che è la prima figlia spirituale dei Servi e mi ha preso per mano dal primo momento». Altra esperienza fondamentale per la formazione di Cosimo sono gli studi al Pontificio Seminario Romano Maggiore. «Vivo a Roma  da sette anni, compreso il propedeutico, ed è stata una finestra sul mondo della cristianità. Al Romano – racconta – ci sono tre amori: il primo è l’Eucarestia e poi il Papa e la Madonna. Questi sono stati i riferimenti in questi anni di formazione bellissimi». Anni in cui, nel suo servizio, ha incontrato un’umanità varia, di cui si è innamorato. «Ho svolto il mio servizio nella parrocchia di san Basilio, che si trova in una zona che è centrale nello spaccio di droghe della città. Lì ho incontrato tante ferite, tante storie e ho imparato a servire, che poi è il carisma dei Servi della Sofferenza. Un’esperienza di umanità unica, così come quella in una casa famiglia chiamata Ain Karim, dove sono stata accanto a bambini senza genitori. È stato un anno, l’anno dell’accolitato, quello tradizionalmente dedicato alla carità, in cui io vivevo proprio con loro nel fine settimana, in un appartamento attiguo. Ho prestato servizio anche a Santa Maria delle Grazie, al Trionfale, una zona ricca ma al contempo molto povera spiritualmente, nei valori. Ho visto tante persone che sembravano essersi dimenticate di Dio, pensando solo al superfluo eppure proprio lì ho capito che prete vorrei essere: uno che si sappia sedere accanto, portare Gesù alla gente senza mettermi al centro. La gente è assetata di Dio, non di me, di come mi presento, della mia simpatia o del mio carattere. Non mi interessa rendermi accattivante ma mostrare con l’esempio ai ragazzi la bellezza di Gesù che mi ha conquistato e può conquistare anche loro. Ecco, per me il prete è questo. Ora che sono al sesto anno romano mi hanno assegnato alla parrocchia di santa Lucia, nei pressi di piazzale Clodio. Un’esperienza completamente diversa, perché è una comunità molto anziana. Questi vecchietti però sono splendidi, pronti a donare il loro cuore, i loro racconti di vita. Anche da loro sto imparando tanto». Appassionato della storia e della testimonianza di sant’Ambrogio «il mio idolo, senza di lui non ci sarebbe stato Agostino vescovo. Grande profondità ma un modo semplice di parlare, nel libro ‘I doveri’ tratteggia la figura del ministro e traccia una scia», Cosimo ha da poco terminato il quinquennio filosofico-teologico e attualmente si sta specializzando in ricerca teologica patristica, uno studio approfondito sui padri della cristianità. Oggi in famiglia sono tutti felici della sua scelta ma non è stato sempre così. «Non fu facile comunicarlo. L’ho detto prima a mia madre e poi con lei a papà. Ci fu silenzio per mesi a casa mia. I miei credevano ma non erano partecipi della vita di comunità. Passata l’estate, quando dissi che sarei andato a Roma per proseguire gli studi insieme al mio amico Michele Monteleone (anche lui oggi diacono, intervista a parte, ndr) si tranquillizzarono, sentii che era già cambiato qualcosa. Con il passare degli anni, vedendo la mia convinzione e la felicità per il percorso intrapreso, entrambi hanno compreso, fino ad esserne contenti. Ne sono nati anche percorsi di vita nuovi: per esempio da quando anche mia sorella è fuori, a Bologna, mia madre ha cominciato di sua iniziativa a svolgere volontariato alla Caritas diocesana. Anni fa non lo avrei creduto». Per dirla come una celebre canzone italiana, “Come si cambia, per amore”.

 

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Diocesi

Antonio Di Reda: “Il mio sì a Dio da adulto”

23 Apr 2022

di Marina Luzzi

Quando tutto sembra già scritto, la vita, il destino o Dio, ci mettono lo zampino. Così è successo ad Antonio Di Reda, 42 anni. La sua è la storia di una vocazione adulta, che ha scompaginato una vita già scritta: il lavoro di anni come responsabile elettrico di una ditta dell’appalto ex Ilva, una busta paga di 1400 euro al mese, un mutuo, una casa tutta sua. «Percepivo però che qualcosa mi mancava»- racconta oggi, a poche ore dalla consacrazione a diacono da parte dell’arcivescovo della diocesi di Taranto, mons. Filippo Santoro, nella Concattedrale Gran Madre di Dio. «Paradossalmente io mi sono avvicinato a Dio, allontanandomene. Ho sempre avuto un legame forte con la Chiesa. Quando ho avvertito che tutto era compiuto, la mia vita scritta, casa, lavoro, fidanzata, ho sentito altrettanto fortemente che mi mancava qualcosa. Se ero in parrocchia o partecipavo alle funzioni, questa inquietudine veniva meno, lì stavo proprio bene. Così ho cominciato a ricercare il senso della felicità autentica. Avevo 33 anni, per due anni ho partecipato agli incontri vocazionali a Poggio Galeso, ai tempi con don Giovanni Chiloiro e poi con don Davide Errico. Quando ero ormai convinto c’è stato lo stop dell’arcivescovo che mi ha detto di risolvere prima una serie di aspetti pratici, prima dell’anno propedeutico. Dovevo ad esempio trovare una soluzione per il mutuo della casa. Dopo mi sono dedicato al mio cammino, con il seminario maggiore che ho frequentato a Molfetta. Ora, fino a giugno, do una mano a don Francesco Tenna, che è nella parrocchia Spirito Santo, quella dove sono cresciuto, a due passi da dove abito e mi sento felice». Chi ha frequentato questa comunità negli anni ’90, Antonio lo ricorda scout. «Ci sono entrato per gioco. Prima di me avevano iniziato il cammino i miei cugini di Ginosa Marina e ne erano entusiasti. Allora io provai con il gruppo che stava nascendo vicino casa, il Taranto 17. Avevo 11 anni. È stato un percorso che mi ha fatto crescere ed avere grandi testimonianze anche sacerdotali. Ricordo gli anni con don Fiorenzo Spagnulo, con cui ho imparato che un prete deve anche essere pratico, operativo, sporcarsi le mani, pulire le grate, fare lavoretti. Le storie sono tante, gli esempi bellissimi: don Giuseppe Zito e poi don Ciro Santopietro, don Martino Mastrovito, don Giuseppe Marino e adesso in ultimo don Angelo Baldassarre e don Marco Peluso, che erano seminaristi mentre io iniziavo. Guardando a loro ho capito di voler essere un sacerdote che sia testimone credibile, nel fare, nell’accogliere storie, nel pregare e nell’insegnare come pregare. Un sacerdote tra la gente e non solo nella sagrestia». Una delle difficoltà che si hanno quando si scopre una vocazione è quella di non sentirsi all’altezza. In un mondo basato sulla performance, scambiamo Dio per un datore di lavoro che ci vuole sempre efficienti e sul pezzo ma l’amore non ha a che fare con la resa, non mette voti, non giudica, non è meritrocratico e talvolta neanche giusto. La chiamata di Dio, la scelta di seguirlo, restano un mistero a cui non si può decidere di rispondere facendo leva solo sulla propria forza di volontà. Questo sembra dire Antonio, raccontandosi. «La svolta è arrivata all’inizio del terzo anno di seminario maggiore a Molfetta. È come se avessi fatto un salto- spiega- che mi ha fatto comprendere che Dio voleva me, nonostante la mia imperfezione, nonostante non mi sentissi degno di una chiamata così importante e questo ha significato guadagnare in libertà e capire che questo cammino con Lui mi rendeva tanto felice». Due figure bibliche lo hanno guidato finora lungo il percorso: Mosé perché «grazie a un parallelismo con la mia vita, mi ha aiutato a riscoprire la presenza di Dio dentro di me e san Paolo, per il suo continuo interrogarsi sulla dignità dell’essere discepolo e nel mio caso sacerdote, persona». E mentre Antonio prende consapevolezza che manca davvero poco perché ci sia questo ulteriore e ultimo passaggio necessario per diventare sacerdote, il pensiero va già al futuro, diviso tra il desiderio di rimanere a casa «quella parrocchia intitolata allo Spirito Santo che è stata davvero una seconda famiglia, un riferimento continuo e le nuove esperienze che mi attenderanno, ovunque possano portarmi. Tutto è arricchimento e scoperta»-dice- con la gioia di chi sa che il meglio deve ancora venire.

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Musica

A Sud del mondo: quando la cultura diventa incontro

23 Apr 2022

Musica dal vivo con i Terraross e The Uppertones, spettacoli di falconeria, rievocazioni storiche, laboratori, mostre, dj set e degustazioni: tutto questo e molto altro nell’attesissimo evento “A Sud del Mondo” in programma al Canneto Beach di Leporano, in provincia di Taranto, il prossimo 25 aprile dalle 10 del mattino e sino a sera. Un progetto culturale, promosso da un gruppo di operatori del territorio, che guarda alla contaminazione tra culture lontane e debutta in grande stile in questa prima edizione. «Abbiamo pensato ad una giornata all’aria aperta, adatta sia a ragazzi che a famiglie, nella quale- anticipano gli organizzatori- sarà possibile vivere una serie di esperienze e cimentarsi in attività tra loro variegate».

Indiscussa protagonista sarà la musica: quella folk dei Terraross che viaggia nel profondo Sud pugliese e quella targata The Uppertones con un repertorio swing, boogie, calypso e mento, sino alle selezioni su vinile di Goffredo Santovito che ospiterà altri dj: Gopher, Tobia Lamare, Attilio Monaco, Jhonny&Vinnie. E se il filo conduttore è, appunto, il Sud del mondo, ecco i piatti a tema dello chef Salvatore Carlucci: chimichurri di manzo (Argentina), cous cous di verdure (Marocco), jambalaya (Sud Africa), curry mauriziano di tonno (Mauritius) e le immancabili orecchiette pomodoro fresco e cacio e bombette alla brace (sud Italia).

Emozione e adrenalina pura, poi, con Falconeria Bergamotti e gli spettacoli che vedranno protagonisti rapaci, anche di grandi dimensioni; un’immersione nel passato con “Taras, scorci di vita” a cura dell’associazione I Cavalieri de li Terre Tarentine che accompagneranno il pubblico tra rievocazioni storiche, attività, esposizioni di armi e armature. Ma l’evento sarà anche occasione per scoprire i segreti di cartoni animati, fumetti e giochi da tavolo per capire come nascono e conoscerne gli aspetti più inediti, grazie ai workshop artistici con i professionisti di Animatà Academy che non hanno bisogno di presentazionI: Nicola Sammarco, Angelo Peluso e Alessio Fortunato.

Tutto questo è reso possibile dalla sinergia tra varie realtà territoriali, su impulso della cooperativa archeologica Polisviluppo, PromoArt e.t.s, Sisters eventi, ArchiTA Festival e This is the Party che hanno organizzato il ricchissimo programma.

E ancora: laboratori di nodi marinareschi e attività motorie legate al mondo della vela a cura de I Pirati delle Cheradi; laboratori di cultura naturale con Alessandra Rusciano e Chiara De Pace per un viaggio tra il potere terapeutico dei fiori della Gran Bretagna e antiche bevande; laboratori di danza terapia e ginnastica sensoriale a cura di CMCfloorwork. Per i bambini laboratorio di movimento con Serena Arco, attività ricreative a cura di Info Point e Pro Loco di Taranto e miniclub. Per i più coraggiosi anche prove di apnea con LAS Taras Sub Diving Center. Non mancheranno neppure esposizioni di artigianato, la mostra fotografica “Chiamalo Sud” di Maria R. Suma e la presenza di Taranto in Calessino con il suo mobile tourism office. Info: pagina Facebook e canale Instagram “A Sud del Mondo”, 388.7848371 oppure 393.3302247.

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