Tutto cambia, nulla resta uguale

Cina, Unione europea, Svizzera, Regno Unito, Vietnam, Giappone, Taiwan, India, Corea del Sud, Thailandia, Indonesia, Bangladesh, Malesia, Cambogia, Sud Africa, Brasile, Singapore, Madagascar, Israele, Filippine, Cile, Australia, Pakistan, Nicaragua, Kazakistan, Turchia, Sri Lanka, Colombia, Perù, Norvegia, Costa Rica, Serbia, Giordania, Emirati Arabi, Nuova Zelanda, Argentina, Guatemala, Honduras, Myanmar, Egitto, Arabia Saudita, Salvador, Botswana, Trinidad e Tobago, Marocco, Repubblica Domenicana, Ecuador, Tunisia, Costa d’Avorio e Laos. Sono cinquanta i paesi del mondo destinatari dei dazi di Trump. Forse per l’età, o per scarsa intimità con atlanti e carte geografiche, nel corso dello show di mercoledì sera, ha dimenticato l’Antartide e pure il Sahara. Particolarissima “cautela” ha riservato all’Unione europea: “Ci hanno derubato per anni perché gli amici, spesso, si sono comportati, con noi, peggio dei nemici”. Sono, più o meno, le stesse parole che disse il marito alla moglie quando scoprì che lei voleva conseguire il diploma di scuola superiore: “È una vita che mangi a spese mie”. Ma perché Trump detesta tanto l’Unione europea? E che cosa c’è dietro alle parole offensive e agli atti ostili mossi da Trump verso l’Ue? È una strategia tattica e negoziale? No, forse c’è una precisa visione del mondo. Questa visione del mondo compare nell’istante stesso in cui si capisce che Trump cova un astio per l’Europa che va al di là dei calcoli economici e dei bilancini commerciali. Trump detesta gli europei in quanto europei, ama gli europei però quando sono anti europeisti e con Putin ha in comune un obiettivo immediato e “logico”: indebolire l’Europa per permettere alle grandi star del panorama globale di spartirsi il mondo senza avere un pericoloso concorrente sul proprio itinerario. Trump considera l’Europa una parassita, come ha già detto in passato e senza fare giri di parole, una parassita da punire con i dazi, da minacciare sulla difesa, da escludere dai colloqui di pace sull’Ucraina. Al suo fianco destro e non sempre un passo indietro, c’è Vance che la detesta al punto da considerare odiosa l’idea di dover salvare l’Europa ancora una volta, come successe dopo la seconda guerra mondiale, come ha avuto modo di scrivere nella chat del gruppo su Signal, gruppo in cui è stato inserito il direttore dell’Atlantic. E, addirittura, la ritiene più catastrofica per la libertà di quanto non lo sia la Russia, come ha tenuto a dire in un discorso in Germania. Al suo fianco sinistro e sempre un passo in avanti c’è Musk, che ha sostenuto nei mesi passati il partito più anti europeista di tutta l’Europa, l’AFD, senza raccogliere i risultati sperati ma indicando una volontà lampante nel sentirsi a proprio agio più con i partiti che l’Europa la vogliono combattere che con i partiti che l’Europa la vogliono proteggere. Fino al pomeriggio di mercoledì le conseguenze dell’aggressione trumpiana verso l’Europa, sono state diverse: all’Europa, l’astio di Trump nei suoi confronti non ha fatto male e le sue minacce non hanno fatto che spingere l’Europa a fare dei passi in avanti verso la difesa, hanno permesso all’Unione europea e al Regno Unito di iniziare una fase di riavvicinamento. Ma non solo: hanno spinto la Commissione ad accordare un maggiore debito comune, hanno spinto i grandi paesi europei a muoversi senza più ricercare una unanimità per preservare gli interessi europei e le borse europee a registrare performance migliori rispetto a quelle americane nei primi due mesi della presidenza di Trump. Egli osteggia l’Europa perché la storia dell’Europa è la storia di un successo economico, come dimostra il termometro del deficit commerciale degli Stati Uniti, gli americani acquistano dall’Europa più cose di quelle che l’Europa acquista dall’America. Le ragioni di tale scompenso non sono quelle dichiarate da Trump, ma sono ragioni legate a tutto quello che l’Europa sa costruire e che l’America non sa costruire o costruisce meno bene. Da auto migliori ai medicinali innovativi, fino ai macchinari importanti per i chip americani. È un mercato unico la cui ricchezza è, di sicuro, superiore a quello americano e una capacità di miscelare difesa del mercato, difesa del welfare e difesa della libertà che rappresenta per Trump un rivale davvero pericoloso, una alternativa da detestare pure perché minacciosa per il proprio interesse, per il proprio business, per la propria idea del mondo. Trump detesta l’Europa perché l’Europa è globalista, è dialogante, è democratica e sicuramente non come il Maga. In Europa, quando ciò è possibile, il potere si distribuisce, si limita, si regola, si diluisce, viene tenuto a bada da compromessi, trattati e istituzioni, e l’idea che, nel mondo, possa esistere un concorrente che difende la libertà senza far sfoggio di muscoli è un problema per Trump. La osteggia perché gli ricorda quello che non è e non mai può essere: l’Europa è un insulto alla sua visione verticale del potere. L’idea che esista una realtà istituzionale che dimostra che la libertà possa essere organizzata senza autoritarismo è un gran problema per Trump. Vuole indebolire l’Europa, provando a farla divenire più vulnerabile, provando a renderla più divisa, provando ad allevare i cavalli di Troia dell’anti europeismo, non per ciò che l’Europa fa ma per quello che l’Europa è: l’Ue è stata costruita sul diritto, mentre i Maga rispettano soltanto i rapporti di forza. Con lo show di mercoledì sera, è tramontata l’epoca del “vassallaggio felice” di cui parlò il Capo dello Stato Sergio Mattarella all’Ateneo di Aix-Marseille e occorre sperare che sia finita anche la fase della troppa gratitudine, perché – così come, un tempo, soleva dire un cardinale di Santa Romana Chiesa – “la troppa gratitudine non è altro che la speranza di ulteriori favori futuri”.
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