Tracce

Un esempio per tutto il mondo

ph Reuters-Avvenire
03 Ott 2025

di Emanuele Carrieri

All’incirca alle venti di mercoledì sera l’assalto alla Global Sumud Flotilla è incominciato, con un affiancamento delle imbarcazioni della missione. Ed è giunto anche il tempo delle riflessioni. Forse c’è da stupirsi del fatto che l’azione della Flotilla abbia innescato un dibattito infuocato e provocato delle reazioni scomposte? Lo spirito autentico, l’intendimento profondo dell’operazione era ed è quello di trovare una risposta a una questione che, da vari mesi, interpella le coscienze di milioni di persone comuni, normali, con una domanda che ciascuna di quelle persone avrà fatto o si sarà sentita fare decine di volte: cosa fare davanti alla mattanza che si sta consumando nella Striscia di Gaza? Le risposte erano sempre più o meno tali e quali, trite e ritrite: avere consapevolezza di quel che avviene, fare pressioni sui propri governi, non rassegnarsi alla mostruosità. Ma la Flotilla e tutte le persone che, di recente, sono scese nelle strade e nelle piazze, partecipando a manifestazioni, a cortei e a sit-in, hanno, invece, ribadito che un altro modo, (prima ancora che un altro mondo), è possibile, che i popoli possono fare la storia o, almeno, prendersi la scena, avere un ruolo importante e decisivo. Ma non basta: che c’è una strada diversa a quella della progressiva assuefazione, che, poi, conduce alla normalizzazione delle mostruosità. Loro, hanno usato una modalità senza tempo, un modo evergreen: la mobilitazione, intesa come la capacità di mettere in moto energie e pulsioni diverse, tramite iniziative più o meno piccole ma che agiscono come una rete di luci costiere. Luci che indicano la rotta, ma anche simboli che stimolano altre lotte. Così è stato per la Flotilla, forse anche in virtù del carattere complesso dell’operazione e articolato su diversi piani. In primis, quello pratico, vale a dire la consegna di aiuti umanitari – anche se in quantità simbolica – a una popolazione civile sfinita da due anni di offensive militari. Ma, innanzitutto, quello politico, che ha concorso a influenzare le scelte dei governi europei, forse dando una accelerazione a processi già in atto e che ha determinato la accentuazione della coscienza collettiva su concetti come l’avvio di canali umanitari, la fine della guerra, l’autodeterminazione del popolo palestinese. Esito a parte dell’azione della Flotilla, rimane il fatto che l’attenzione mediatica ha evidenziato la necessità e la urgenza dell’apertura di canali umanitari perché la distribuzione del cibo non è solamente insufficiente, ma risponde anche a una logica castigante. Perciò, la scelta di andare avanti va letta come l’esigenza di rompere l’assedio non come atto di forza, ma come atto di ribellione a una pressione costante sulla pelle di centinaia di migliaia di persone. Ecco perché quella della Flotilla non è mai stata solamente una missione umanitaria, ma davvero politica, e dire questo non è una blasfemia, non è un sacrilegio, non è reato e non è peccato. Al contrario, ha messo a nudo la modalità con la quale il governo israeliano agisce, perché l’affiancamento è stato messo in atto in acque internazionali, in completa violazione dei trattati e malgrado si trattasse di cittadini stranieri. L’impunità di Netanyahu è apparsa distintamente: una missione umanitaria è stata prima diffamata con l’accusa di prendere denari da Hamas, poi minacciata, infine colpita da azioni dimostrative in acque non israeliane. Dinanzi a tali prepotenze i governi europei hanno fatto spallucce, limitandosi a qualche dichiarazione di circostanza. Del resto, che cosa ci si può aspettare da chi neppure si interroga su possibilità di sanzioni, dopo decine di migliaia di morti e una vera e propria distruzione che non ha precedenti. Piccola parentesi su Meloni che, andando oltre gli estremisti israeliani, ha attribuito a una missione umanitaria, disarmata e innocua, le responsabilità di un eventuale fallimento delle trattative sul piano di pace (?) di Trump e chiedendosi se l’azione di oltre un centinaio di barche e di un migliaio di attivisti provenienti da tutto il mondo fosse stata ideata per causare difficoltà al suo governo (!). Al di là di tutto ciò, il tilt che ha determinato la Flotilla è evidente, perché ha agito da catalizzatore del dissenso dell’opinione pubblica verso l’inazione dei governi europei, diventando un polo magnetico per milioni di persone e impedendo che il sovrappiù di informazioni diventasse assuefazione. Quel tilt ha posto i governi dinanzi alla realtà nuda e cruda: quando si teme una missione umanitaria, senza armi, su barche cariche solo di cibo, c’è qualcosa che non va, forse perché ci sono equilibri che si reggono sulla ipocrisia o sulla connivenza, invece che su principi di diritto. Restano inevase le domande. C’è da chiedersi perché quasi tutti i governi europei facciano appello al rispetto da parte della Flotilla di un blocco navale che ormai ha superato qualsiasi confine di legalità. C’è da chiedersi perché non si fa invece pressione su Israele per porre fine al blocco illegale e per garantire l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione civile, come prevede il diritto. Resta la speranza, perché c’è sempre chi nella storia fa una cosa forte e la fa per tutti, perché possa aiutare tutti a mantenere la rotta. Aiutano tutti a difendersi dalle bussole impazzite. In questo senso, le gesta dei militanti della Flotilla, che hanno trascorso giorni di incertezza e paura, finendo con l’essere arrestati in acque internazionali in un attacco illegale dei militari israeliani, è un aiuto importante, per tutti, con una decisione che si può giudicare discutibile, ma che è stata legittima e coerente: una forma di rivolta contro le violazioni del diritto internazionale da parte israeliana, ma anche contro tutti quelli che pensano che tutto sia sempre smerciabile, contrattabile, svendibile. Contro chi dice che, in fondo, ci si può girare dall’altra parte.

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