Lode, liturgia e azione: la prima messa per la custodia del Creato
 
                Nella cornice silenziosa e verdeggiante di Borgo Laudato si’, a Castel Gandolfo, papa Leone XIV nella giornata di oggi, mercoledì 9 luglio, ha celebrato la prima messa per la custodia del Creato: un forte segnale di apertura, speranza e continuità. L’aggiunta rituale rappresenta infatti un segno concreto dell’intreccio sempre più profondo tra teologia, spiritualità e impegno per la casa comune. La Laudato si’ di papa Francesco è stata a tal proposito una voce profetica.
Non si tratta di una ‘messa ecologica’ nata da una ‘enciclica verde’, poiché il cuore della celebrazione è profondamente teologico e spirituale: proprio attraverso la liturgia che l’uomo si identifica con la creazione, restituendone il dono in lode al creatore.
Il nuovo formulario è stato approvato l’8 giugno in occasione della solennità di Pentecoste, e promulgato dal decreto del dicastero per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti del 3 luglio 2025.
Ispirata ai temi della Laudato Si’, la nuova messa si inserisce nel solco della tradizione liturgica, andando ad arricchire i formulari “per le necessità civili” previsti.
Le letture scelte offrono una riflessione sul legame tra la bellezza del creato, la cura, e la vocazione cristiana a custodire ogni dono, rendendo in questa maniera lode al creatore.
Scendiamo nel dettaglio dei nuovi testi liturgici.
L’antifona d’ingresso, tratta dal salmo 18, proclama che “i cieli narrano la gloria di Dio”: l’universo intero è rivelazione e parola. Parafrasando Teilhard de Chardin, potremmo dire che esso è soggetto attivo di una grande liturgia cosmica. Qui si apre una visione in cui la creazione non è solo oggetto da proteggere, ma soggetto della lode, spazio in cui Dio si rende presente e riconoscibile. È tipico della letteratura veterotestamentaria attribuire alla creazione la capacità di rivolgersi al Creatore, cosa non sconosciuta anche al Nuovo Testamento per cui Paolo afferma che la creazione stessa “geme e soffre in attesa della rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8,19-24). Chi sono i figli attesi? Chi sono coloro che manifestano in se stessi l’immagine e la somiglianza a quel Padre che è amore?
La colletta esprime con chiarezza la radice cristologica di questa prospettiva: il Padre ha chiamato all’esistenza tutte le cose nel Figlio, “primogenito di ogni creatura” (cf. Col 1,15), e ci chiede di custodirle nel soffio dello Spirito, con carità. Questo richiamo trinitario fonda ogni etica ambientale sul cuore della fede cristiana, ovvero l’amore intratrinitario.
Le offerte sono presentate come “frutti della terra e del lavoro dell’uomo”, ma anche come partecipazione al “lavoro” stesso di Dio: l’Eucaristia trasforma il pane e il vino, cui l’uomo partecipa con il proprio lavoro, in cibo e bevanda di vita eterna. La dimensione sacramentale si intreccia così alla responsabilità ecologica. Un lettore attento – o un ascoltatore della celebrazione – potrebbe dire che abbia sentito la formula già da un’altra parte. L’orazione sulle offerte, infatti, ricalca le due preghiere recitate poco prima nella presentazione dei doni. In esse, infatti, si dichiara che il pane e il vino presentati sull’altare sono a un tempo il “frutto della terra/vite” e del lavoro dell’uomo. Qual è la novità? Possiamo azzardare che il terzo rigo sia davvero potente: pérfice in eis opus creatiónis tuæ, ovvero: completa in essi l’opera della tua creazione. Che bello! La creazione opera d’amore di Dio è nelle mani dell’umanità. Le donne e gli uomini la lavorano e la santificano con la propria opera e, nel restituirla sull’altare al Signore, Dio stesso completa per mezzo dello Spirito Santo ciò che ha iniziato dall’eternità. È una dichiarazione dell’intimo essere amore di Dio perché, come insegna Agostino, l’amore non è perfetto se non contempla in sé anche l’altro e la sua capacità di amare: “L’amore è sempre l’amore di qualcuno che ama, e per mezzo dell’amore si ama qualcosa” (cfr. De Trinitate VIII.10.14).
L’antifona alla comunione richiama l’universalità della salvezza: “tutti i confini della terra hanno visto la salvezza del nostro Dio” (cf. Sal 97,3). La terra non è un dettaglio, ma parte della promessa.
La preghiera dopo la comunione è memoria di un vertice dell’essenza del cristianesimo: ricevendo il “sacramento dell’unità”, siamo chiamati a crescere nella comunione che ci fa desiderare l’unità con ciò che Dio ama. Quindi non solo con Dio e i fratelli, ma anche con tutte le creature, imparando a vivere nell’attesa dei nuovi cieli e della terra nuova (cf. Ap 21,1). La storia, dicevamo in apertura, non è finita. La storia è anche la storia della nostra speranza e la speranza è ciò che muove i nostri passi quotidiani verso vie di bene o di distruzione. L’eucarestia come presenza reale del Cristo che ci fa unità in Dio, richiama ciascuno di noi a riconoscere l’appello a una comunione universale nell’amore. Certamente è necessaria una nuova economia, una nuova politica, una nuova antropologia del senso della nostra presenza sulla Terra. L’eucarestia è il ‘nuovo’ di Dio. Un Dio che si fa fragile per abitare l’intimo e dal cuore trasformare ogni cosa. La storia è attirata dall’eucarestia.
Il nuovo formulario liturgico è un dono attraverso cui la Chiesa ci consegna un nuovo modo di vivere e amare la terra da figli e non da padroni. La Messa per la custodia del Creato ci invita a recuperare quell’idea di connessione del tutto, in cui lo sguardo del Creatore, sempre vigile, attento e colmo d’amore abbraccia ogni creatura, guidando il cammino dell’umanità verso una comunione con Dio, i fratelli e la terra.
Celebrare, in questo senso, significa anche custodire e quindi amare: in un tempo segnato da crisi ambientali e relazionali, la liturgia affida a tutti noi il compito di trasformare la lode in vita, e quindi in dono.
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