Tracce

La guerra di tutti contro tutti

(Foto Sir tratta dal sito internet https://www.agensir.it/)
04 Mar 2024

di Emanuele Carrieri

Nella complessità e nella molteplicità delle ragioni che hanno dato origine alla attuale fase del conflitto israelopalestinese, è presente un elemento – trascurato, molto spesso, dalla maggior parte delle cancellerie di tutto l’occidente e dalla gran parte degli osservatori e degli analisti geopolitici – che ha partecipato a rafforzare tutte le condizioni ottimali per una riuscita dell’aggressione terroristica di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno. Si tratta della irrimediabile spaccatura presente nella società e nel contesto politico israeliano, causato, soprattutto, dalle decisioni del governo Netanyahu e della coalizione, nata dalla votazione del novembre del 2022. Purtroppo, questa divisione della società israeliana è diventata pian piano una condizione strutturale. Nata, e sostenuta, in ambienti di estrazione laica (artistici, culturali, accademici, intellettuali, giornalistici) ma in seguito allargatasi a una opinione pubblica sempre più angosciata dall’attacco frontale del governo ai principi base della democrazia, la frattura ha determinato, fra il 2022 e il 2023, un’onda d’urto nella quale si sono riconosciuti anche pezzi di istituzioni, anche da parte di chi ha il compito di salvaguardare la sicurezza nazionale, interna ed esterna, vale a dire le forze armate, nella loro generalità. Questa spaccatura si era prodotta sulla riforma della giustizia, nella fase in cui stava per diventare legge dello stato. A fine marzo dello scorso anno, sospendendo il procedimento legislativo fino alla successiva sessione della Knesset, era stato lo stesso Netanyahu a spiegare la sospensione provvisoria con il rischio di “guerra civile” e il senso di “responsabilità nazionale”. Ma poi, quattro mesi dopo, credendo di poter essere meno responsabile e di poter così rischiare la “guerra civile”, fa approvare in prima lettura dalla Knesset la variazione alla clausola di ragionevolezza e toglie ai giudici il potere di valutare la “ragionevolezza” di misure prese da governo e da funzionari eletti. Con proteste mai viste in Israele: protagonisti, centinaia di migliaia di cittadini e, soprattutto, oltre quattro mila riservisti delle Forze di difesa, l’altra parte di Israele rigetta il cambio di paradigma politico imposto dall’alleanza fra destra e ultraortodossi. Su una collettività da sempre alle prese con un ininterrotto stato di difesa armata, ha pesato e, pesa tuttora, il macigno della adesione di una fetta assai significativa di parti delle Forze di difesa, ovvero delle forze armate. Le Forze di difesa non è solo un esercito organizzato, disciplinato e con una tradizione di assoluta fedeltà al governo in carica; fin dalla proclamazione dello stato è una delle colonne più importanti della intera Nazione, obbligato a quel ruolo dai periodici attacchi armati subiti dal paese nella sua esistenza e dalla necessità di proteggere colonie e kibbutz. Il dissenso dei riservisti, oltre a rendere evidente la spaccatura, ha indebolito i meccanismi di sicurezza nazionale. E ciò è stato lampante quando la sopraggiunta rinuncia dei riservisti all’addestramento annuale volontario ha, di fatto, infranto un tabù intoccabile, inviolabile: la difesa dello Stato. La gravità degli effetti certo non era sfuggita a Netanyahu che, in luglio, aveva affermato: “L’incitamento all’insubordinazione e l’insubordinazione mettono in pericolo la sicurezza di tutti gli israeliani, erodono la deterrenza contro i nostri nemici”. Peccato che lo stesso non decifrasse come fosse potuto accadere che migliaia di riservisti inviassero lettere al ministro della Difesa, dicendo di non essere disposti a combattere per un governo che definivano “dittatoriale” e specificando di aver scelto di “servire il Regno, non il monarca”. Ovvio che la leadership di Hamas abbia utilizzato la situazione per i propri fini: il risultato è sotto gli occhi sgomentati del mondo. Pur non essendo arrivate ai livelli di Israele, fenditure profonde si sono aperte negli ultimi anni anche in altre società democratiche. Il caso degli Stati Uniti è il più eloquente, con toni, nel dibattito politico pubblico, che vanno ben oltre il legittimo scontro fra avversari con idee e progetti di società diversi. L’attacco del 6 gennaio 2021 al Campidoglio – sede ufficiale dei due rami del Congresso statunitense – mostra quella specie di guerra civile strisciante, in cui è stata trasformata la politica da chi si riconosce in Trump. Lo scontro avvenuto al Congresso sugli aiuti all’Ucraina non è da meno, visto che elimina la capacità americana di fare politica estera e di difesa su un caso strategico che riguarda la sicurezza degli alleati. C’è qualcosa di uguale in Europa, non solo nell’uso che la Russia fa delle minoranze russofone fuori dai confini della Nazione per spronare lo scontro in altri paesi, ma anche nella avversione orbaniana per i principi fondamentali della democrazia. L’azione politica radicale e divisiva, caratteristica del populismo, ha già creato, in passato, le condizioni favorevoli per un conflitto civile strisciante mirante a indebolire la concordia collettiva nelle società democratiche e la risposta a un attacco dall’esterno: hanno dato il loro contributo le analisi costruite sulle falsità e la propaganda tesa all’astio per l’avversario. In democrazia, va sempre salvaguardato il pluralismo delle ideologie e degli interessi, ma questo dovere deve essere capace di proteggere dal rischio della spaccatura del corpo sociale e politico perché se no indebolisce le società democratiche nel confronto con quelle dispotiche, che negano ogni dissenso. Se si rischia l’offensiva delle monocrazie contro le democrazie, queste ultime non possono consentirsi di essere indebolite da una guerra civile politica. Pagherebbero salato, come sta accadendo a Israele.

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