Angelus

La domenica del Papa – La guarigione, anche dal peccato, è un cammino

foto Vatican media/Sir
10 Ott 2022

di Fabio Zavattaro

“Gesù, maestro, abbi pietà di noi”. Dieci lebbrosi, dieci morti viventi. Uomini colpiti da una malattia che per la Bibbia e la cultura dell’epoca equivaleva alla morte. Lo chiamano per nome chiedendo il suo aiuto. Solo in due altre occasioni viene invocato con il suo nome nel Vangelo di Luca: dal cieco di Gerico e dal buon ladrone sulla croce. Tutto avviene ai margini del villaggio, “lungo il cammino verso Gerusalemme”. È la terza volta che l’evangelista ci ricorda che Gesù è in cammino verso la città santa, la sua, e la nostra, meta ultima. La strada lo porta a attraversare la Galilea e la Samaria.

Nei pressi del villaggio i dieci uomini con le ferite della lebbra, cioè segnati dal peccato e per questo allontanati, emarginati, si avvicinano e lo chiamano “Gesù, maestro” e chiedono misericordia. Lui, non avvicinandosi, ordina loro di fare ciò che la legge comandava di fare ai lebbrosi, cioè di recarsi dai sacerdoti perché giudicassero lo stato della loro malattia. Non li guarisce subito, come ha fatto in altri casi, non li tocca nemmeno, ma li invia da coloro che devono attestarne la guarigione. I dieci, obbedendo, entrano nel villaggio e si rendono conto, camminando, di essere guariti: “e mentre essi andavano, furono purificati”. La guarigione, anche dal peccato, è un cammino.

Proprio la dimensione del camminare insieme e del ringraziare, sono il cuore della riflessione di papa Francesco, nell’omelia per la canonizzazione del vescovo Giovanni Battista Scalabrini e di Artemide Zatti. All’inizio del brano, Luca ci dice che “non c’è nessuna distinzione tra il samaritano e gli altri nove. Semplicemente si parla di dieci lebbrosi, che fanno gruppo tra di loro e, senza divisione, vanno incontro a Gesù”. Sottolinea il papa: “il samaritano, anche se ritenuto eretico, straniero, fa gruppo con gli altri. Fratelli e sorelle, la malattia e la fragilità comuni fanno cadere le barriere e superare ogni esclusione”. Il numero dieci sta a significare l’intera umanità. Questo vuol dire che siamo tutti malati, peccatori, bisognosi di misericordia, dice Francesco, allora “smettiamo di dividerci in base ai meriti, ai ruoli che ricopriamo o a qualche altro aspetto esteriore della vita, e cadono così i muri interiori, cadono i pregiudizi. Così, finalmente, ci riscopriamo fratelli”. Dobbiamo essere capaci di camminare insieme agli altri, “di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere ‘sinodali’ – è anche la vocazione della Chiesa”.

L’invito di Francesco è di essere comunità “aperte e inclusive verso tutti”. Di più, dice di avere paura “quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare”. Di qui la richiesta di “includere sempre, nella Chiesa come nella società, ancora segnata da tante disuguaglianze ed emarginazioni”.

Ricordando la figura e l’opera di Scalabrini, Francesco parla di “scandalosa esclusione dei migranti”; parla del Mediterraneo come “cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale”.

L’altro aspetto toccato dal papa, la capacità di ringraziare: dei lebbrosi guariti, ci dice Luca, nove vanno per la loro strada, torna solo il samaritano, cioè l’eretico per il giudaismo del tempo. È una brutta “malattia spirituale dare tutto per scontato, anche la fede”. Dice “no” il papa a “cristiani che non si sanno più stupire, che non sanno più dire grazie”: sono “cristiani all’acqua di rose”. L’altro santo, Artemide Zatti, guarito dalla tubercolosi “dedicò tutta la vita a gratificare gli altri, a curare gli infermi con amore e tenerezza”. È una “grande lezione anche per noi che beneficiamo ogni giorno dei doni di Dio, ma spesso ce ne andiamo per la nostra strada dimenticandoci di coltivare una relazione viva, reale con lui”.

Nel dopo Angelus, papa Francesco ricorda i 60 anni dall’apertura del Concilio: anche allora, dice pensando al conflitto nel cuore dell’Europa, vi era il pericolo di una guerra nucleare che minacciava il mondo, “c’erano conflitti e grandi tensioni, ma si scelse la via pacifica”: perché non imparare dalla storia?

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