Editoriale

I tempi per fare il governo e per violare i patti

(Foto ANSA/SIR)
17 Ott 2022

di Emanuele Carrieri

La lotta per la distribuzione dei ministeri ha prevalso sulla necessità di onorare gli adempimenti istituzionali. Se a palazzo Montecitorio, alla Camera dei deputati, i numeri per la elezione del presidente, ai primi scrutini, erano comunque troppo alti, causa per cui si è scelta così la scheda bianca, in Senato La Russa ha ottenuto la presidenza al primo voto solamente grazie ai franchi votatori dell’opposizione, nonostante la volontà del gruppo di Forza Italia di astenersi. È stato un fatto politico grave, che testimonia quanto la maggioranza sia divisa sull’assetto di potere. La prima, rapidissima, impressione che si ricava è che i due partiti minoritari della coalizione, Forza Italia e Lega, vogliano far pagare cara alla Meloni la sua vittoria elettorale, impedendole di dominare il prossimo governo e iniziando così una guerriglia clandestina che potrebbe essere fatale per il Paese, più che per l’Esecutivo. La seconda è che l’accordo di facciata sia quello fra Forza Italia e Lega, ma che sotto ci sia una intesa fra la Meloni e Salvini, pronto a fare il cagnolino che mangia le briciole che cadono dalla tavola del padrone. Le vicende politiche, collegate e non, alla formazione del nuovo governo portano allo scoperto anche un altro tema, che, molte volte, è fronteggiato con estrema superficialità. In campagna elettorale, molte forze politiche dicono di poter fare un governo “entro ventiquattro ore” dalla proclamazione del risultato. Tutto questo presunto efficientismo non solo non è tecnicamente possibile da ottenere, ma sarebbe perfino un fattore negativo per la nascita del governo. Le istituzioni hanno tempistiche determinate. C’è la proclamazione degli eletti, l’esordio dei gruppi parlamentari, la elezione dei presidenti delle Camere, le consultazioni al Quirinale, il conferimento dell’incarico e solo dopo il presidente del Consiglio incaricato scioglie la riserva e porta la lista dei ministri al Capo dello Stato. Non sono le procedure lunghe che inceppano il sistema, ma sono le forze politiche a non funzionare. Nel 2013, non c’era alcuna maggioranza “uscita dalle urne” (alla Camera vinse il centrosinistra, ma in Senato non prevalse nessuno) e così nel 2018 (quando ci volle molto per arrivare al governo gialloverde, peraltro scomponendo il centrodestra). Se fosse stato tecnicamente possibile presentare la lista dei ministri subito dopo il voto, nessuna forza politica avrebbe potuto farlo. Si dirà: ma nel 2013 e nel 2018 i governi non “uscirono dalle urne”. A parte che, in una Repubblica parlamentare, sono le Camere e gli eletti del popolo che “escono dalle urne”, perché non c’è l’elezione diretta del premier, anche nel 1994, 1996, 2001, 2006 e 2008 il primo governo della legislatura arrivò dopo trattative fra i partiti, pur se le elezioni avevano visto il prevalere di una coalizione. Ora il centrodestra ha vinto le elezioni e ottenuto la maggioranza in tutte e due le Camere, ma, per sua fortuna, ci sono adempimenti istituzionali che le stanno permettendo di intavolare tre settimane di negoziati e tafferugli fra il partito maggioritario, Fratelli d’Italia, i due minoritari, Lega e Forza Italia, – a cui aggiungere, per dovere di cronaca, quello centrista – per spartire le presidenze di Assemblea, delle commissioni parlamentari, i dicasteri, i dipartimenti, e poi tutti i ministri, viceministri e sottosegretari. Un lavoro di bilancino, anche se nessuno confessa di adoperare il “manuale Cencelli”, con il quale la Democrazia Cristiana riuscì a trovare la formula per suddividere posti e ruoli politici e governativi a esponenti di partiti e correnti in proporzione al loro peso che, dalla fine degli anni Sessanta in poi, è, in realtà, sempre stato applicato. Le dispute fra i partiti della attuale maggioranza “uscita dalle urne” non sono mai mancate neppure in passato, anche se ora stanno un po’ superando il limite: c’è sempre un partito che ha interesse a piazzare un esponente a un dicastero, o un altro che vuole un ministero che gli serve per fare propaganda e guadagnare voti in futuro. Ci sono poi i veti contro questo o quel politico, che sono dovuti a questioni di incompetenza o a problemi politici o, ancora, a contrasti caratteriali e personali. Si può obiettare che i partiti dovrebbero accordarsi sui nomi prima delle votazioni, ma come si fa se non si conoscono i rapporti di forza fra i partiti? In politica, nessuno regala niente a nessuno. Il problema non sarebbe risolto nemmeno se a vincere fosse solamente un partito: ci sono le correnti, i notabili da accontentare. Allora, se qualcuno promette un governo a ventiquattro ore dal voto, è meglio non fidarsi, perché la propaganda non è divertente ed è anche poco realistica.

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