Editoriale

La promessa neutralità dell’Ucraina ha tante ombre

Ukrainian President Volodymyr Zelensky addresses members of the Italian Parliament via video conference during an extraordinary Plenary session debating on the 'Russian aggression against Ukraine' at the Italian Parliament in Rome, Italy, 22 March 2022. ANSA/ALESSANDRO DI MEO
06 Apr 2022

di Giuseppe Casale*

Guardando al “bicchiere mezzo pieno”, si può sostenere che i colloqui di Istanbul hanno stabilito almeno un punto fermo: la rinuncia ucraina a entrare nella Nato, accettandosi neutrale. Ma l’assenza di precisi contenuti circa lo status lascia pensare a un compromesso sospensivo, di natura più che pre-negoziale. Peraltro, se i modelli restano quelli trapelati già a metà marzo, le contraddizioni tra questi e le dichiarazioni delle due diplomazie non mancano.

Si è parlato della neutralità “perpetua” del tipo costituzionalizzato dall’Austria nel 1955 per liberarsi dagli occupanti sovietici e angloamericani, rinunciando a schierarsi tra i due blocchi bipolari e, più in generale, a non coinvolgersi in alleanze militari e a non ospitare basi straniere. L’alternativa sarebbe la neutralità “convenzionale”, non costituzionalizzata, del tipo adottato dalla Svezia a partire dal 1834, parzialmente derogata con le facilitazioni logistiche alla truppe tedesche nel 1941 e poi ribadita a conclusione del conflitto mondiale. In entrambi i casi, la neutralità non ha impedito l’adesione alla Ue, la partecipazione a missioni di peacekeeping e le collaborazioni in partenariato con la Nato.

A parte le incognite sulla modifica della previsione programmatica in cui la costituzione ucraina menziona l’adesione alla Nato, resta il nodo della compatibilità tra i due modelli – che comunque contemplano l’esistenza di forze armate nazionali – e l’obiettivo russo, dichiarato alla vigilia dell’invasione, di smilitarizzare Kiev: la formula sembrerebbe prossima piuttosto a quella dettata dagli Usa per l’art. 9 della costituzione giapponese del 1947. Non dissimile il discorso se si tratta di prestabilire limiti prefissati alle dotazioni militari. Anche in questo caso, si comprende il rilancio ucraino per la specialità di una soluzione in termini di garanzie di fattiva difesa prestate da Stati terzi. D’altra parte, pur non implicando l’automatismo dell’art. 5 del Trattato Nato (immediata reazione militare in soccorso di un alleato), a seconda dei garanti, ciò potrebbe precostituire rinnovate recriminazioni russe rispetto all’atlantizzazione surrettizia del Paese.

A ogni buon conto, è la guerra sul campo che volge a determinare il tipo di neutralità che dovrà stabilirsi. Le notizie degli ultimi giorni descrivono la concentrazione delle forze russe sul Donbass e la fascia costiera. I nuovi attacchi a Odessa, il bersagliamento di infrastrutture critiche (raffinerie e impianti di stoccaggio, ponti e snodi ferroviari), l’apertura di più punti d’attacco sulla linea del fronte, il movimento a tenaglia da nord a est, sono elementi che chiariscono la volontà di raggiungere una condizione di preminenza con cui chiudere la partita, imponendo lo stato di fatto territoriale o usando gli ulteriori avanzamenti come merce di scambio per vincere i dinieghi ucraini. Specularmente, anche l’intermittenza tra rigidità e possibilismo di Zelensky sembrerebbe ispirata dalle difficoltà russe, di cui si spera di approfittare per modificarne al ribasso le posizioni negoziali, in attesa di altre armi e dell’inasprimento delle sanzioni.

Su un piano del tutto differente, un altro attore è alle prese con questioni di neutralità. Nel suo caso, però, non subita, bensì rivendicata. Nel vertice del 1 aprile, von der Leyen e Michel sono tornati a chiedere al governo cinese una scelta di campo, ossia di sottrarsi al ruolo di salvagente della Russia per costringerla a desistere. Sebbene i termini impiegati siano stati “mediazione” e “persuasione”, è chiaro il tipo di leva che si vuole dalla Cina, al punto di definirne l’equidistanza una complice interferenza nell’azione occidentale. Sul piatto, assieme alla reputazione internazionale di Pechino, i leader europei hanno posto il confronto tra il volume dei suoi traffici con Ue e Usa, superiore di 9 volte a quelli con Mosca. Oltre al bastone, la carota: lo sblocco della ratifica di Strasburgo all’Accordo globale sugli Investimenti (Cai) e la rassicurazione di considerare Taiwan un partner economico e non anche un soggetto politico sovrano.

Dietro le apparenze dello scambio, dunque, continua a modularsi la logica del “con noi o contro di noi” già sottoposta senza contropartite da Biden a Xi Jinping. E da quest’ultimo respinta, non soltanto invitando ad apprezzare la neutralità stabilizzatrice dell’azione cinese e a curarsi delle ripercussioni finanche alimentari sulla popolazione mondiale, ma altresì addebitando alle intemperanze imperialistiche della Nato la riproposizione anacronistica del manicheismo della Guerra fredda.

Ciò rende viepiù evidente quanto la vicenda ucraina si include nella competizione globale, in cui la Casa Bianca tenta di rendere Pechino funzionale all’agenda contemporanea, prefigurando in alternativa un neo-bipolarismo incompatibile con l’“armonia tentacolare” che consente a Pechino di penetrare in tutti i mercati. D’altronde, il Gigante asiatico non avrebbe preclusioni ideologiche a scaricare la Russia: sodale tattica ed estemporanea, rivale storica e pur sempre occidentale, abusivamente estesa sino alle estreme propaggini d’Oriente. E ora rivelatasi pericolosamente destabilizzante. Per giunta, in una vicenda anch’essa tutta occidentale, su cui la società cinese, in sintonia con il governo, esprime la condanna equilibristica sia dell’ingerente espansionismo atlantista sia della trasgressione russa al dogma della sovranità. Tuttavia, abbandonare Mosca gratis non è nelle corde mandarine. Almeno, i segnali lanciati dopo i colloqui romani hanno suggerito aspettative in ordine alla non interferenza su Taiwan, Hong Kong, Xinjiang, Tibet e a una revisione dei piani statunitensi su Quad e Aukus, visti come una sorta di Nato indo-pacifica.

La Cina non tollera di essere messa sotto pressione e, per farlo intendere, ha risposto con la medesima moneta, ribadendo la formula dell’“amicizia senza limiti” con la Russia. La cui estensione dipenderebbe dall’Occidente: il messaggio cifrato è stato inoltrato il 30 marzo, nell’incontro tra Lavrov e Wang Yi a margine della conferenza di Tunxi. Nelle dichiarazioni dei due spicca la promozione di un ordine mondiale multipolare, da costruire cominciando a reclutare il sud globale: l’attivismo diplomatico cinese in queste settimane di guerra, intessuto di incontri bilaterali presso diverse capitali asiatiche e africane, ne è tangibile attestazione.

Più concretamente, la conferenza di Tunxi tra i Paesi confinanti con l’Afghanistan ha dato risalto all’utilità geostrategica che Mosca, dopotutto, rappresenta per la Cina. Certamente quale scudo frapposto tra questa e l’Occidente, nonché come disciplinatrice orbitale delle repubbliche centroasiatiche percorse dalle Vie della Seta. Per nulla residuale poi è la posizione della Russia come partner condiviso con l’India, già foriera di frizioni territoriali, ora lanciatasi a sfidare, con colossali investimenti, la connettività infrastrutturale di Cina e Pakistan con Kabul mediante l’hub marittimo di Chabahar (per il quale Nuova Delhi sta ingaggiando la collaborazione delle menzionate repubbliche) e pronta a siglare con l’Australia la piattaforma di cooperazione commerciale (Ecta) più estesa al mondo.

Su questi presupposti pragmatici Pechino mostra che, se gli Usa (non certo la Ue) non hanno di meglio da offrire, non può certo contribuire né per una Russia in ginocchio né per la destituzione di Putin, prestandosi a una mediazione “schierata” del tipo concepito oggi a Occidente. L’ambivalente e conservativa neutralità, accreditata dal mancato riconoscimento dell’annessione della Crimea, può consentire l’attesa di sviluppi che interpellino il Gigante in modo più remunerativo, ovvero, che lo spingano a smarcarsi dal Cremlino paventando perdite non più compensabili.

*Pontificia Universitas Lateranensis

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