Francesco

LA DOMENICA DEL PAPA – La pace donata dal Signore che vince ogni paura

23 Mag 2022

di Fabio Zavattaro

In questa domenica le letture ci portano già un anticipo della Pentecoste, ovvero del dono dello Spirito. Gesù è ancora con i suoi nella sala dell’ultima cena e Giovanni, nel suo Vangelo, ricorda le parole con le quali il Signore annuncia un tempo futuro in cui “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremmo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ai dodici dice che non rimarranno soli – “vado e tornerò da voi” – ma anche perché con loro ci sarà sempre lo Spirito santo, il Paraclito, che li sosterrà: Paraclito, ovvero colui che si pone accanto. La meta cui tendere è Gerusalemme, la città celeste, descritta con grande cura nell’Apocalisse. Un pellegrinare fatto di essenzialità: la parola da osservare e custodire, il dono dello Spirito Santo e la pace donata dal Signore che vince ogni paura. Città con le sue dodici porte aperte a coloro che accoglieranno la parola del Signore, e si lasceranno cambiare dallo Spirito.

Proprio la pace – “vi lascio la pace, vi do la mia pace” – è il tema che Francesco pone in evidenza nelle parole che precedono la recita del Regina caeli. Tema centrale insieme a quell’amare “gli uni gli altri come io ho amato voi”; un Dio che si fa mendicante, diceva padre Davide Maria Turoldo, mendicante d’amore. Una pace che è negata in tanti luoghi come in Ucraina, nello Yemen; abbiamo bisogno della pace che non è quella del mondo, ma dono di Dio, sorretta dalla speranza, perché nel nostro pellegrinare non mancano rischi, pericoli, ostilità e scelte coraggiose da assumere.

Gesù si rivolge e saluta i suoi discepoli – siamo ancora nei discorsi dell’addio – con parole “di affetto e serenità”, dice papa Francesco, “in un momento tutt’altro che sereno. Giuda è uscito per tradirlo, Pietro sta per rinnegarlo, e quasi tutti per abbandonarlo: il Signore lo sa, eppure non rimprovera, non usa parole severe, non fa discorsi duri”.

“Vi lascio la pace”. Una pace “che viene dal suo cuore mite, abitato dalla fiducia”; una pace che “ha in sé” perché “non si può dare pace se non si è in pace”. Per Gesù la mitezza è possibile anche nel momento più difficile, così il papa, ai presenti in piazza San Pietro, ma anche a tutti noi, chiede “se, nei luoghi dove viviamo, noi discepoli di Gesù ci comportiamo così: allentiamo le tensioni, spegniamo i conflitti? Siamo anche noi in attrito con qualcuno, sempre pronti a reagire, a esplodere, o sappiamo rispondere con la non violenza, sappiamo rispondere con gesti e parole di pace?”.

“Vi do la mia pace”. Non è facile questa mitezza; difficile, faticoso poi disinnescare i conflitti, rispondere “con la non violenza” con “gesti e parole di pace”. Per questo ci serve un aiuto: “la pace, che è impegno nostro, è prima di tutto dono di Dio”, La sua pace “è lo Spirito santo, lo stesso Spirito di Gesù”, afferma papa Francesco; “è la presenza di Dio in noi, è la forza di pace di Dio”, che “disarma il cuore e lo riempie di serenità”, che “scioglie le rigidità e spegne le tentazioni di aggredire gli altri”, e ci ricorda che accanto a noi “ci sono fratelli e sorelle, non ostacoli e avversari”. E è sempre lui che “ci dà la forza di perdonare, di ricominciare, di ripartire, perché con le nostre forze non possiamo. È con lui, con lo Spirito Santo, che si diventa uomini e donne di pace”.

Non cita il papa la guerra in Ucraina come ha fatto dall’inizio del conflitto, lo scorso 24 febbraio; ma il suo messaggio è molto più di un appello alla fine del conflitto, è invito a ritrovare la strada del dialogo, del rispetto dell’altro, della pacifica convivenza tra popoli; messaggio che è anche risposta a quanti hanno giustificato l’invasione russa. Così nelle parole conclusive prima della preghiera mariana chiede Francesco di pregare: “Signore dammi la tua pace, dammi lo Spirito santo”. Chiediamolo, dice, “per chi vive accanto a noi, per chi incontriamo ogni giorno, e per i responsabili delle nazioni”.

Nel dopo Regina caeli un pensiero alla Cina “seguo con attenzione e partecipazione la vita e le vicende di fedeli e pastori”; chiede che la chiesa possa vivere “in libertà e tranquillità”, per offrire “un positivo contributo al progresso spirituale e materiale della società. E un saluto ai partecipanti alla manifestazione “Scegliamo la vita”, che è dono di Dio.

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Cinema

Bellocchio torna sul sequestro Moro con “Esterno notte”. Una regia grintosa, coraggiosa, divisiva

23 Mag 2022

di Sergio Perugini
foto Anna Camerlingo

A vent’anni dal suo film “Buongiorno, notte” (2003) e quasi a quarantacinque dal rapimento e uccisione dell’on. Aldo Moro, nella primavera del 1978, il regista Marco Bellocchio torna a raccontare quella vicenda, con un cambio di passo. Lo fa con un’opera inedita e una modalità per certi versi innovativa: la formula della miniserie, “Esterno notte”, prodotta da The Apartment – Fremantle con Rai Fiction e Arte France, in questi giorni al 75° Festival di Cannes e nei cinema con Lucky Red per un’uscita evento in due atti (la prima parte dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno), proprio come fu per “La meglio gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordana. Bellocchio per la prima volta si confronta con il racconto Tv, ripercorrendo i giorni di prigionia del presidente della DC, esplorando nei 6 episodi tutti gli attori in campo di quella tragedia personale, familiare, politica e sociale. “Esterno notte” è una serie dura, durissima, incalzante, che si spinge sino ai confini della rabbia e della commozione. Il punto Cnvf-Sir.

Maledetta primavera

Nell’Italia infiammata dall’escalation terroristica, la primavera del 1978 rappresenta una stagione di drammatico cambiamento. In poco meno di due mesi, esattamente cinquantacinque giorni, un terremoto colpisce Parlamento e Paese tutto: il 16 marzo 1978, sulla strada che lo conduce alla Camera dei Deputati, l’auto su cui viaggia l’on. Aldo Moro, presidente della DC e tra i promotori dell’apertura del governo a sinistra, al partito comunista, viene assaltata da un commando armato. La sua scorta viene barbaramente uccisa. Tutti. L’on. Moro viene rapito e rinchiuso in uno spazio claustrofobico. A rivendicare l’agguato sono le Brigate rosse, che avviano un braccio di ferro con lo Stato mettendo il politico sul banco degli imputati. Dopo cinquantacinque giorni, nonostante le indagini di polizia e forze armate, l’attivismo continuo della Santa Sede, in primis di Paolo VI, Moro viene brutalmente giustiziato e il suo cadavere fatto trovare in centro a Roma, tra le sedi della DC e del PCI, il 9 maggio.
Di questo ci parla la miniserie “Esterno notte” diretta da Marco Bellocchio e scritta dal regista piacentino insieme a Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino. “Ho voluto stavolta – ha indicato l’autore – farne una serie per raccontare l’‘Esterno’ di quei 55 giorni italiani stando però fuori dalla prigione tranne che alla fine, all’epilogo tragico. ‘Esterno notte’ perché stavolta i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro: la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati”.

La politica vista con sguardo impietoso, la Chiesa con comprensione

Sui brigatisti Bellocchio non fa sconti. Dura e netta è la condanna. Vengono tratteggiati inizialmente per l’ebbrezza di un’idea rivoluzionaria che però si traduce in una vertigine folle e disperante, dagli esiti irreparabili. La carica di contestazione che li anima perde forza e vigore lungo la prigionia dell’on. Moro, facendoli così apparire non come figure rivoluzionarie bensì uomini soli, insicuri, il cui sonno della ragione vacilla…
Bellocchio non fa sconti neanche alla politica, al partito della DC. Due i soggetti presi di mira: l’on. Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), allora presidente del Consiglio, e l’on. Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), ministro dell’Interno. Verso di loro, verso la DC, il regista si prende la libertà di accusarli a viso aperto, criticandone l’immobilismo, l’ipocrisia nel piangere pubblicamente il collega di partito, ma di non volerne la salvezza. Lo sguardo di Bellocchio è severo, fermo, bruciante. Una condanna senza appello.
Diverso, invece, è l’atteggiamento nei confronti della Chiesa. Il regista ci offre un ritratto di papa Montini, facendosi aiutare dalla finezza interpretativa di Toni Servillo. Il Papa è raccontato per la sua fragilità di salute – morirà subito dopo Moro, nell’estate del 1978 –, ma dall’animo sempre vigile e mai rassegnato. Papa Montini si dispera per l’amico Moro e fa di tutto, muovendo ogni canale a disposizione; mette persino in campo una ingente somma in denaro per pagarne il riscatto. La sua figura è tratteggiata come eterea, quasi pronta al sentiero di santità, sottoponendosi a continue flagellazioni per espiare colpe e peccati non suoi. Un’interpretazione che si muove lungo il binario del rispetto, rischiando a ben vedere qua e là pericolosi inciampi. Servillo però è puro talento, e non si lascia scappare di mano il personaggio.

foto Anna Camerlingo

Aldo Moro “alter Christus” e la tempra della moglie Eleonora

La vis poetica di Bellocchio emerge con intensità nel modo in cui presenta Aldo Moro, che Fabrizio Gifuni rende in maniera inappuntabile, con una mimesi espressiva e introspettiva di raggelante bravura. Moro brilla per la luce della sua ragione e per la forza granitica della sua fede, brilla anche negli anfratti più bui della prigionia. Appare come un povero Cristo, un “alter Christus”, che si incammina senza fare opposizione verso il Golgota, spintonato tanto dai brigatisti quanto dai compagni di partito. E questa sovrapposizione, tra Moro e Cristo, viene rimarcata volutamente da Bellocchio, che ce la offre con suggestioni oniriche striate di tragedia: vediamo infatti Moro piegato sotto il peso di una croce pesante, incede ma non cede, e abbraccia la sua morte con pia accettazione. “Quell’uomo – afferma Bellocchio – come Cristo, ‘doveva morire’. Perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma soprattutto nella mente degli italiani”.
La fede è un punto centrale nella storia, come pure il bisogno di eucaristia. Bellocchio ci mostra Moro come un cristiano granitico, un uomo di fede piena. Ha bisogno di andare in Chiesa, non per coscienza partitica, ma per adesione personale e morale. Un’esigenza di eucaristia, di vicinanza a Cristo, proprio quando sta per attraversare lui la soglia della fine, quando sta per espiare sulla Croce. Lì in quei difficili, interminabili, minuti, quando si trova davanti un sacerdote confessore, per un momento lo assalgono idee-emozioni inattese: paura della morte, rabbia per una condizione immeritata, persino odio, sì odio, per chi lo ha tradito tra i suoi pari in politica. Un moto dell’animo che dura però un attimo, arrivando subito a chiedere il perdono, prima di lasciarsi andare alla notte.
La fede che illumina Aldo Moro risplende anche in famiglia. Punto di osservazione è soprattutto la moglie Eleonora, che Margherita Buy scolpisce con fierezza e fragilità, regalando un ritratto spigoloso e struggente. Eleonora è una donna che fa quadrato intorno ai figli, li protegge, blinda la sua abitazione lasciando la politica fuori dalla porta, da cui si sente rabbonita e presa in giro. I suoi modi sono asciutti, spicci, ma sempre eleganti e rispettosi. Ripete di continuo “siamo cristiani”, un richiamo a un impegno civile, morale, che non deve venire mai meno. Neanche nella notte più buia.

La regia grintosa di Bellocchio

In ultimo, la regia di Marco Bellocchio. È la sua prima miniserie Tv, che affronta con la sicurezza del grande autore, mettendo in campo una freschezza narrativa, una solidità e una tensione di racconto ammirevoli. Bellocchio, passati gli ottant’anni, dimostra di avere ancora molto da dire. Ha una vis narrativa, poetica, rigogliosa, grintosa. “Esterno notte” conquista dunque per il modo in cui è girata, per le soluzioni visive messe in campo, che ricordano il grande cinema. Una narrazione esperta, matura, percorsa da inedita vitalità. I temi che affronta sono complessi, difficili, spesso divisivi per come li declina, ma di certo non può essere negata la sua capacità di racconto, il suo potente sguardo. “Esterno notte” è una miniserie complessa, problematica e adatta per dibattiti.

 

foto Anna Camerlingo

 

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Editoriale

Giovanni Falcone. Pellegrini: “Abbiamo vinto tante battaglie ma non la guerra”

23 Mag 2022

di Simone Pitossi (*)

“Abbiamo vinto molte battaglie ma non la guerra”. Sono le amare parole di Angiolo Pellegrini, uno degli uomini di fiducia del giudice Giovanni Falcone. Uno degli ultimi protagonisti ancora in vita di una stagione tragica e irripetibile che ha segnato la storia del nostro paese. La storia degli investigatori e dei magistrati che contro la mafia facevano davvero sul serio. E che sono anche caduti sul campo in mezzo a uno scontro tra clan mafiosi che solo tra il 1979 e il 1986 ha fatto più di mille morti. Pellegrini – in un’intervista telefonica – ricorda quegli anni di inchieste e di arresti eccellenti, di grandi vittorie ma anche di sconfitte. Ricordi che sono al centro del suo libro “Noi gli uomini di Falcone”.

“Stare accanto a Falcone, vedere come lavorava, la sua competenza, la sua passione, per me è stata un’esperienza unica – spiega -. Era rigoroso negli accertamenti, preciso, verificava ogni dettaglio per allontanare qualsiasi possibile dubbio della corte. E soprattutto aveva una grande onestà intellettuale: era deciso sia quando c’era da procedere in giudizio, sia quando c’era da prosciogliere una persona in assenza di prove certe”.

Neanche quarantenne, Pellegrini assunse il comando della sezione Anticrimine di Palermo dal 1981 al 1985. Soprannominato dai suoi “Billy the Kid”, Pellegrini guadagnò ben presto la fiducia di Falcone grazie alla proposta di un nuovo metodo investigativo, che poneva al centro la tracciabilità degli spostamenti delle grandi somme di denaro in mano alla mafia. Ancora fu Pellegrini a consegnare al magistrato il primo rapporto “Michele Greco + 161”, documentazione che si rivelò fondamentale per il maxiprocesso, che con la sentenza finale della Cassazione vedrà confermati 19 ergastoli per un totale di 2665 anni di reclusione. “Fu un’operazione immensa” sottolinea Pellegrini.
Fu anche l’uomo che indagò su Buscetta il potente boss legato alla mafia perdente, arrestato in Brasile alla fine del 1983. Quando il 15 luglio del 1984 “Don Masino” sbarcò a Fiumicino accanto a lui sedeva proprio Angiolo Pellegrini. E sempre lui con Falcone raccolse per mesi le sue dichiarazioni in una caserma di Roma, mentre tutti erano convinti che non avrebbe mai collaborato con la giustizia italiana.

“Di quel periodo – aggiunge con una velo di tristezza nella voce – ricordo che, dopo la giornata di interrogatori, andavamo in albergo (sempre diverso ogni volta) e poi facevamo lunghe camminate per Roma parlando dell’inchiesta ma anche di tante altre cose personali”.

L’amarezza emerge quando arriviamo a parlare di quel tragico 23 maggio 1992: non è facile infatti essere uno dei pochi sopravvissuti. La casualità della vita ha voluto che quel giorno Pellegrini atterrasse a Punta Raisi con il volo di linea poco dopo Falcone e che i due non facessero il tragitto in macchina insieme, come spesso invece capitava. Lui arrivò a Capaci, accompagnato da un collega, quando il traffico era bloccato a causa dell’esplosione: “Non capivamo cosa fosse successo. Uscimmo quindi dall’autostrada e arrivammo a Palermo. Lì fui informato dell’accaduto”. “La mafia aveva capito – continua – che le indagini erano state fatte in modo serio, che i processi non sarebbero finiti con l’assoluzione per assenza di prove e quindi andarono a bussare alle porte dei piani più alti”. E così, con la morte di Falcone e di Borsellino, conclude Pellegrini “dopo aver vinto tante battaglie non riuscimmo a vincere la guerra contro la mafia”.

(*) Toscana Oggi

(Foto ANSA/SIR)

 

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L'argomento

30° della strage di Capaci, Maria Falcone: “Le idee di Giovanni camminano sulle gambe dei giovani”

23 Mag 2022

di Filippo Passantino

Maria Falcone ne è certa: “Giovanni sarebbe soddisfatto per come si sia mantenuta in questi trent’anni la memoria dolorosa per la strage, ma soprattutto per come, negli ultimi anni, le sue idee continuino a cammianare sulle gambe di tante persone”. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia, nell’attentato alle porte di Palermo, il 23 maggio 1992, parla  a trent’anni di distanza da quel giorno, che ha segnato un solco nella lotta a Cosa Nostra. E lo ribadisce con sicurezza: “Tutto quello che riguarda la lotta alla mafia oggi si rifà alle idee di Giovanni, che sono state comprese e portate avanti non solo in Italia ma a livello internazionale – aggiunge -. Sono stata spesso alle Nazioni Unite e ho notato nei convitati quanto all’italia si riconosca l’impegno antimafia nel segno di Giovanni”.

 

Nei giorni scorsi, in occasione della Conferenza internazionale dei Procuratori generali a Palermo, la presidente della fondazione Giovanni Falcone aveva parlato di “un’iniziativa che concorre a rimarginare la ferita inferta a mio fratello da molti esponenti della magistratura che furono protagonisti, durante tutta la sua carriera, di attacchi violenti e delegittimanti che concorsero al suo isolamento”. Per Maria Falcone, “assistere, se pure a distanza di tempo, a questa testimonianza e al riconoscimento della straordinaria rilevanza del lavoro di Giovanni da parte di una magistratura per troppo tempo ostile, mi restituisce un po’ di pace e mi fa sperare che il passato sia ormai alle spalle. Finalmente viene riconosciuta la portata delle intuizioni e dell’attività investigativa e culturale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per anni percepiti come un problema invece che come risorse e osteggiati dalla miopia e, in qualche caso, dall’invidia di colleghi che non seppero o non vollero vedere comprendere la loro visione e la loro lungimiranza”.

Professoressa, qual è stata la sua reazione dopo la strage di Capaci?
Quando Giovanni è morto, io ero disperata non solo come sorella ma anche come cittadina italiana, perché temevo, dopo aver vissuto accanto a lui i momenti del suo lavoro per dieci anni a Palermo e dopo essere arrivati a tante vittorie come il maxiprocesso, che tutto potesse essere dimenticato. In quei giorni, il mio dolore era la possibilità che il suo lavoro anche a Roma alla legislazione antimafia e alla legge sui pentiti potesse andare perso. Con questo timore e pensiero negativo nella mente mi sono chiesta cosa potessi fare. Così il primo istinto fu quello di creare con gli amici di Giovanni una fondazione.

Ho cercato di portare avanti soprattutto un’idea di Giovanni: nella lotta alla mafia non basta la repressione ma è necessaria una cultura diversa, una società diversa di nuovi soggetti giovani che dismettesse tutti gli atteggiamenti di connivenza e di mafiosità, come l’indifferenza e l’omertà.

Così ho capito che potevo parlare ai giovani per superare questi atteggiamenti. In trent’anni questi passi avanti sono stati fatti. Se la memoria di Giovanni è così viva lo dobbiamo a tanti insegnanti d’Italia. Quando sono andata nelle scuole ho trovato ragazzi preparati.

Trent’anni dopo, come ricordate suo fratello e le altre vittime della strage di Capaci?
Ho notato una grande attenzione da tutti i media e la voglia di creare, in questi giorni, anche una memoria visiva attraverso la tv che parlasse agli italiani. La Fondazione dà l’opportunità a tutta la città di Palermo di partecipare. Quest’anno la manifestazione non la facciamo in un’aula chiusa per motivi di Covid, come l’aula bunker, ma al foro italico. Con la partecipazione delle scuole, delle istituzioni.

Ai giovani abbiamo voluto dare una lezione di educazione civica che fosse una memoria di tutti i morti di mafia, non solo di Giovanni, Francesca e degli agenti della scorta.

Ogni scuola ha scelto una vittima della mafia e l’ha fatta studiare. Poi, ha realizzato un lenzuolo, che sarà esposto nella piazza. L’anno scorso abbiamo cominciato con i giovani anche un percorso artistico. Abbiamo puntato sulla bellezza dell’arte, come contraltare alle bruttezza della mafia con tante opere installate a Palermo, come murales. Allo Spasimo arriva un albero realizzato da un artista di Bolzano con 400 rami alla cui estremità vi saranno affissi i volti delle vittime di mafia. Abbiamo scelto, dunque, tre direttirci: la memoria condivisa di tutte le vittime di mafia, una memoria che deve essere collettiva. Quest’anno, con l’appoggio dalla Provincia autonoma di Bolzano, abbiamo voluto anche unire i due estremi del Paese, indicando la mafia non solo come un problema della Sicilia ma che riguarda tutti. E, infine, l’arte come strumento di bellezza.

Secondo lei, come è cambiata, se è cambiata, la mafia oggi?
Giovanni diceva che la mafia cambia a seconda delle esigenze del momento, ma resta sempre uguale. In questi anni abbiamo attraversato momenti difficilissimi, come il Covid e ora la guerra in Ucraina, e l’attenzione si è spostata su queste emergenze, ma non bisogna togliere spazio all’emergenza mafia. Che c’è, esiste e approfitterà di questi momenti di debolezza.

Quanto le è mancato Giovanni in questi trent’anni?
Mi è mancato tantissimo, è una mancanza materiale ma spiritualmente c’è. Lo sento sempre nei miei pensieri e non ho il tempo di pensare che lui non ci siaMaria Falcone a un incontro con alcuni studenti

 

foto Ansa/Sir

 

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Editoriale

Ucraina: i dilemmi e gli scenari

23 Mag 2022

di Emanuele Carrieri

Il conflitto in Ucraina è in una situazione di stallo, in una condizione di sospensione. Spiegando in parole povere, ci sono, alla prova dei fatti, due sole possibilità. Una è che la Federazione Russa, condotta da Sua Altezza – veniva chiamato così anche Vittorio Emanuele III – Vladimir Putin, messa all’angolo la sicumera della fase iniziale della operazione militare speciale, o meglio, dell’aggressione, continui ad avanzare, senza, comunque, consolidare un evidente successo nella parte orientale del territorio ucraino. È pressoché sicuro che, in tale caso, la Russia, per interrompere i combattimenti, chiederebbe – si fa per dire – la accettazione dell’autonomia del Donbass – sebbene, fino a ora, mai completamente conquistato –, la approvazione della annessione della penisola della Crimea e un collegamento terrestre fra le due regioni. Soluzione, questa, ritenuta di sicuro inaccettabile sia dall’Ucraina sia dagli Stati Uniti, che si apprestano ad approvare nuovi aiuti militari all’Ucraina per quaranta miliardi di dollari. Se la conclusione fosse questa, è molto probabile un proseguimento del conflitto strisciante, in perfetto stile russo. In questo caso, la Russia conseguirebbe i propri obiettivi minimi della guerra – conquista del Donbass, ma non la cacciata o la cattura di Zelenskyi – e ciò apre un quesito cruciale, non solo per gli Stati Uniti, ma per la Nato, l’Europa e l’Ue. Adesso, quale sarà il prossimo obiettivo per la Russia? L’altra possibilità è che non solo l’Ucraina non esca sconfitta dalla guerra, ma che addirittura – per l’appunto, con il sostegno statunitense – si riprenda buona parte dei territori finora conquistati dalla Russia. In questo caso la Russia ne uscirebbe, in realtà, sconfitta, e quale sarà la reazione di Putin? A tal proposito vi sono diversi segnali “fiacchi” da tenere in considerazione. Il primo è il discorso del 9 maggio di Putin, breve, commemorativo, moderato, senza alcuna indicazione per il futuro. Il secondo è che Putin, di fronte alla assegnazione di quaranta miliardi di aiuti militari per l’Ucraina e di altrettanto per l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, non ha espresso reazioni minacciose. Un terzo segnale è che il linguaggio della TV di stato russa è molto più aggressivo e minaccioso rispetto a quello delle autorità ufficiali. Un eccesso di zelo dei giornalisti per la vittoria non ratificato dal governo. Prolungare il conflitto senza drammatizzare oltre misura, mantenendo la pressione sull’Ucraina senza gonfiare, potrebbe essere parte della strategia di Putin in attesa che Donald Trump, contrario all’impegno americano in Ucraina, sia riesumato e subentri a Biden. Ma in questa prospettiva favorevole per l’Ucraina e gli Stati Uniti di cacciata dei russi dai confini ucraini, c’è il pericolo che Putin, con il suo governo, interpreti questa sconfitta come una minaccia per il proprio regime, con conseguenziale rischio di una escalation nucleare, già minacciata nel caso di un intervento diretto della Nato nella guerra. In questo caso il confronto fra Russia e Stati Uniti potrebbe essere il più rischioso dai tempi della crisi dei missili di Cuba dell’ottobre del 1962. Comunque vada a finire – l’auspicio è quello di un ragionevole accordo – due problemi di lungo termine restano ben aperti. Il primo riguarda la Nato. Solamente pochi mesi fa si immaginava che la Nato sarebbe diventata superflua, perché il cuore della geopolitica mondiale sta evolvendo verso una direzione lontana dal continente europeo. L’Europa avrebbe dovuto situarsi, senza abbandonare le proprie radici occidentali, in una posizione di mediazione fra America e Repubblica Popolare Cinese, mobilitando una alleanza internazionale di respiro mondiale, ispirata ai principi degli Accordi di Helsinki del 1975. Oggi questa prospettiva pacifista per la Nato non esiste più di fronte all’aggressività russa. Il secondo riguarda la Russia e il suo leader Putin. Si immaginava che l’Ucraina si sarebbe dissolta nel giro di pochi giorni ma gli avvenimenti sono andati poi diversamente. La Russia è bloccata nella sua invasione, è isolata a livello internazionale, perfino nello sport. La Russia non ha afferrato l’esperienza delle potenze forti che hanno invaso paesi più deboli, e che, alla fine, perdono. Non solo gli Stati Uniti – in Vietnam, Afghanistan, Iraq – ma anche la Cina, che nel 1979 aveva attaccato il Vietnam. Chi difende la propria casa è molto più motivato di chi la attacca, che tuttavia vuole, ancor prima di vincere, salvare sé stesso. Oggi le nuove tecnologie favoriscono chi si difende, e impone forti perdite a chi attacca. In Iraq e in Afghanistan, in venti anni, gli Stati Uniti hanno perduto quindici mila soldati. La Russia ne ha perduto almeno trenta mila in dieci settimane. Come ha scritto nel saggio “Le origini della seconda guerra mondiale”, il giornalista, scrittore, anchorman, nonché docente di storia a Oxford Alan John P. Taylor: “Sebbene lo scopo dell’essere una Grande Potenza sia quello di essere in grado di combattere una Grande Guerra, l’unico modo per rimanere una Grande Potenza è non combatterne una.”

 

(Foto Ansa/Sir)

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Diocesi

L’improvvisa scomparsa di don Ciro Antonacci, parroco dell’Angeli custodi ai Tamburi

23 Mag 2022

All’età di 76 anni, per un arresto cardiocircolatorio, è venuto a mancare don Ciro Antonacci, parroco della chiesa Angeli Custodi, al quartiere Tamburi.

Il sacerdote era ricoverato al SS. Annunziata per un incidente stradale, proprio nei giorni a cavallo dei festeggiamenti per il suo cinquantesimo di sacerdozio, previsti per venerdì 20 sera in Concattedrale, insieme all’arcivescovo mons. Filippo Santoro e ad altri tre sacerdoti.

Quell’appuntamento ha dovuto saltarlo, ma telefonicamente stava predisponendo con i suoi parrocchiani di festeggiare appena dimesso. Le sue condizioni erano davvero in progressivo miglioramento e l’arresto cardiaco, nelle prime ore di domenica 22, non è addebitabile all’incidente di diversi giorni prima.

Don Ciro fu nominato parroco agli Angeli Custodi nel 1976 dall’arcivescovo mons. Guglielmo Motolese al posto di don Donato Palazzo.

La salma è stata traslata dall’ospedale nel salone della parrocchia degli Angeli Custodi e oggi, lunedì 23 maggio, sarà trasferita in chiesa per il rito funebre celebrato alle ore 16 dall’arcivescovo mons. Filippo Santoro.

La redazione di Nuovo Dialogo esprime il proprio cordoglio alla famiglia e ai suoi amati parrocchiani.

 

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Politica italiana

Il 12 giugno, insieme alle amministrative, si voteranno cinque referendum.

23 Mag 2022

di Stefano De Martis

Il 12 giugno gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi su cinque referendum in materia di giustizia. Vediamo in estrema sintesi – e scontando quindi un’inevitabile semplificazione di questioni talvolta molto complesse – i contenuti di questa consultazione che, come sempre per i referendum abrogativi, sarà valida se parteciperà al voto la metà più uno degli aventi diritto.

Incandidabilità e decadenza. Il referendum propone di abrogare il decreto legislativo del 2012 (noto alle cronache come “legge Severino” dal nome dell’allora ministro guardasigilli) che, in caso di condanna per certi reati, prevede automaticamente l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza per tutti i livelli rappresentativi: dal Parlamento europeo fino ai consigli comunali e circoscrizionali. Per gli amministratori locali già dopo la condanna in primo grado, quindi non definitiva, scatta la sospensione. In caso di abrogazione sarà il giudice, come avveniva prima del 2012, a decidere volta per volta se applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici. I promotori sostengono che la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato vuoti di potere e la sospensione temporanea dalle cariche di innocenti poi reintegrati al loro posto, quando possibile. I contrari sottolineano che l’abrogazione dell’intero decreto indebolisce la lotta alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni.

Limitazione delle misure cautelari. Il referendum propone di ridurre i casi in cui possono essere comminate misure cautelari (in carcere o secondo altre modalità) a una persona gravemente indiziata. Dei tre motivi previsti – pericolo di fuga, di inquinamento delle prove, di reiterazione del reato – il quesito interviene sul terzo che, secondo i promotori, è quello che viene più frequentemente utilizzato per adottare la custodia cautelare. L’obiettivo dichiarato è di limitare l’uso di uno strumento che presenta il rischio di determinare l’ingiusta detenzione di cittadini prima che il processo ne accerti la colpevolezza. I contrari al referendum sostengono che, in caso di abrogazione, le misure cautelari diverranno inapplicabili al di fuori della sfera ristretta dei delitti di criminalità organizzata, di eversione o commessi con l’uso della violenza o di armi.

Giudici e pubblici ministeri. Il referendum propone di azzerare la possibilità che nel corso della sua carriera un pubblico ministero possa diventare giudice e viceversa. Attualmente il passaggio è possibile quattro volte, la riforma Cartabia in corso di approvazione ne prevede una sola. Secondo i promotori l’intercambiabilità tra funzione requirente (la cosiddetta pubblica accusa) e quella giudicante compromette la “terzietà” del giudice. Ogni magistrato, invece, deve scegliere una volta per tutte quale funzione svolgere perché solo così – sostengono i promotori – si potrà creare “un sano e fisiologico antagonismo tra poteri”, scongiurando il formarsi di uno “spirito corporativo” tra le due figure. I contrari affermano che la rigida separazione delle funzioni trasformerebbe il pm in un “accusatore puro”, con l’unico obiettivo della condanna dell’imputato e non di fare una indagine il più completa possibile per arrivare a una sentenza che tenga conto di tutti gli elementi raccolti intorno a quella fattispecie di reato.

Consigli giudiziari. Il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e i Consigli giudiziari territoriali sono organismi che forniscono pareri al Csm, a cui secondo la Costituzione spettano le decisioni sul percorso professionale e sui provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Nei Consigli sono presenti nella misura di un terzo anche avvocati e professori universitari (“membri laici”) che però non partecipano alle decisioni sui pareri relativi alla professionalità dei magistrati. Il referendum propone di abrogare questo limite, con la finalità di rendere più oggettive le valutazioni grazie all’apporto di soggetti estranei all’ordine giudiziario. I contrari mettono in guardia dal rischio di cortocircuiti tra avvocati e magistrati che operano nello stesso distretto e che potrebbero essere reciprocamente influenzati nei loro comportamenti.

Candidature al Csm. Il referendum propone di abrogare il requisito di almeno 25 firme (fino a un massimo di 50) per la presentazione delle candidature dei magistrati al Csm. Secondo i promotori è un modo per ridurre il “correntismo” tra le toghe, per i contrari è una misura sostanzialmente irrilevante. Sta di fatto che anche la riforma Cartabia prevede l’eliminazione delle firme e se essa dovesse diventare legge in tempo utile, il referendum sarebbe superato.

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Sport

Basket: amaro epilogo dei playoff, ma tanti applausi per il Cus Jonico

23 Mag 2022

di Paolo Arrivo

Per una volta abbiamo lasciato in tasca il telefonino, deposto smartphone e iPad, i moderni taccuini, per non distogliere la vista dallo spettacolo realizzato sul parquet di gioco. Abbiamo sperato che si materializzasse il miracolo sportivo. Che è mancato per poco: il Cus Jonico ha ceduto alla RivieraBanca Basket Rimini anche il terzo incontro dei playoff, con il risultato finale di 81-84, e ha dato l’addio ai sogni di gloria. La cronaca sommaria del match dice che gli uomini allenati da Davide Olive ci hanno messo il cuore. Come sempre hanno fatto in questa stagione. Noi abbiamo visto due rincorse poderose contro l’avversario forte. Due fughe stoppate dai corridori: la prima a metà partita; la seconda nell’ultima frazione di gioco quando, dai meno 16, gli ionici hanno ridotto lo svantaggio a due punti soli infiammando il pubblico accorso al Palafiom. In quei frangenti i cestisti del CJ avevano il sangue agli occhi coinvolgendo nella trance agonistica gli stessi numerosi spettatori. Ovvero catapultandoli in un’altra dimensione, come se non contasse la posta in gioco: non si stava lottando soltanto per la promozione. Non è bastata l’atmosfera e la rimonta si è arrestata al quinto doppio fallo di Ponziani. Gli ultimi interminabili secondi, frammentati dai tiri dalla lunetta, non hanno portato fortuna al Cus Jonico, uscito tra gli applausi. Ovvero a testa altissima dalla competizione. Il rammarico c’è, e resterà a lungo: se si fosse giocato con la stessa intensità in ogni fase del match, ci saremmo dati appuntamento a un altro incontro.

I PLAYOFF. A gara quattro ci arrivano la Raggisolaris Faenza e Ruvo di Puglia, che si sfideranno domenica alle 18 (gli emiliani conducono per 2-1 i giochi); Ancona, che è avanti sulla Virtus Kleb Ragusa. Tutte le gare sono visibili in diretta streaming su Lnp pass. Al netto dell’esclusione del Cus Jonico, l’appendice della serie B old wild west 2022 riserva ancora emozioni per chi potrà meritarsi il salto di categoria.

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Hic et Nunc

MuDi: un evento di promozione del territorio e dei suoi prodotti

Al Museo Diocesano di Taranto, il futuro del territorio, e che Sneakers76 vuole far conoscere al mondo attraverso questa collaborazione.

21 Mag 2022

La sera del 20 maggio il MuDi (Museo Diocesano di Taranto) ha ospitato un evento di presentazione del nuovo prodotto di Sneakers76 di Taranto. Un prodotto rivolto a tutti, in particolare dagli amanti delle sneakers e caratterizzato da una elevata cura e attenzione per i dettagli.

 

 

Questa volta sono state protagoniste le Isole Cheradi, un piccolo arcipelago di fronte alla città di Taranto. Due isole, San Paolo e San Pietro, ricche di storia che rappresentano un’occasione per il futuro del territorio e che Sneakers76 vuole far conoscere al mondo attraverso questa collaborazione.

 

L’ispirazione dei colori proviene da una foto scattata dall’alto delle due Isole: le tonalità del blue rappresentano i colori del mare che le circondano, quelle del beige e del rosa traggono ispirazione dalla sabbia, mentre il bordeaux e cuoio sono un richiamo alle case che si ergono sulle due isole. È stata una bella occasione per far conoscere i tesori del MuDi a gente proveniente dall’Italia e dall’estero.

 

 

Rimandiamo alla pagina Instagram del Museo Diocesano:

instagram.com/mudi_museo_diocesano/

DAL MARTEDÌ ALLA DOMENICA. 
CHIUSO IL LUNEDÌ

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Pianeta verde

I ministeri per la Transizione ecologica e l’Istruzione, insieme per l’educazione ambientale delle nuove generazioni

21 Mag 2022

“Senza l’apporto e il sostegno consapevole delle nuove generazioni, ogni sforzo per la tutela della biodiversità sarà insufficiente se non vano. Il Mite sta facendo la propria parte, anche impegnando le risorse del Pnrr dedicate alla riforestazione urbana, alla digitalizzazione dei parchi nazionali, alla rinaturazione del Po, alle azioni e di tutela della biodiversità marina”: così il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che ieri è intervenuto al convegno internazionale “Nature in mind” promosso a Roma dall’Arma dei Carabinieri, nucleo tutela biodiversità, proprio in occasione dei 30 anni dall’adozione della Convenzione per la diversità biologica lanciata il 5 giugno 1992 durante la Conferenza Onu di Rio de Janeiro sull’ambiente ed entrata in vigore il 29 dicembre 1993.
In quell’occasione i leader degli Stati concordarono sulla necessità di una strategia globale di “sviluppo sostenibile” approvando anche la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici e la Convenzione contro la desertificazione.
Cingolani ha richiamato l’attenzione sull’impegno globale per la tutela della biodiversità in un contesto in cui tutti – Onu, Europa e i singoli Paesi come l’Italia – sono tenuti a rafforzare gli impegni e le strategie d’intervento.
Un’occasione importante anche per “sottolineare l’importanza della collaborazione con il Ministero dell’Istruzione” e rafforzarla attraverso il lancio della “Carta per l’educazione alla biodiversità”, a cui le scuole potranno aderire fino alla fine di maggio.
La Carta sarà poi riconsegnata dagli studenti nella giornata del 3 giugno in una iniziativa presso la tenuta presidenziale di Castelporziano, alla presenza del ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi.
“Un’azione corale, quella della diffusione dell’educazione alla biodiversità, alla quale sono chiamate non solo le scuole ma anche altre istituzioni e tutta la società civile, a partire dalle aree protette italiane, come i parchi nazionali, le aree marine protette e le riserve naturali statali . si legge in una nota del Mite -. Forte è il legame con l’Arma dei Carabinieri, che in massima parte gestisce e preserva questi scrigni di tutela della biodiversità, e rappresentano punti di eccellenza delle buone pratiche di sostenibilità, costituendo un riferimento riconosciuto e consolidato per le attività di educazione ambientale”.

 

foto Siciliani-Gennari/Sir

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Europa

Raccomandazione agli Stati del Consiglio d’Europa: cultura, patrimonio e paesaggio hanno “un ruolo nell’affrontare le sfide globali”

20 Mag 2022

Nel contesto della sessione del Comitato dei ministri, in corso a Torino, è stata adottata una raccomandazione sul “ruolo della cultura, del patrimonio e del paesaggio culturale nell’affrontare le sfide globali”. Il documento chiede agli Stati membri di sviluppare azioni e politiche che considerino le risorse culturali come “elementi strategici per aiutare ad affrontare le sfide globali e motori di trasformazione sociale”; ai governi si raccomanda, ad esempio, di lavorare per far crescere “l’empatia culturale”, impegnandosi “nel dialogo e nel costruire comprensione e solidarietà reciproche” perché la diversità venga considerata “valore comune essenziale” e “la collaborazione tra le persone e le istituzioni” diventi parte di una risposta globale. Si invita a coinvolgere artisti e operatori culturali in questo sforzo di imprimere “cambiamenti comportamentali necessari” per affrontare le sfide globali. In particolare, le politiche di sviluppo sostenibile dovranno “mobilitare gli attori nei settori della cultura, del patrimonio e del paesaggio”. La raccomandazione insiste sul ruolo da attribuire e il sostegno da garantire alle comunità locali per sviluppare “dialogo e impegno civico”. Anche le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale dovranno essere sfruttate al meglio in questo sforzo. Disparità di genere nei settori culturale e creativo, le condizioni di lavoro di artisti e professionisti della cultura, accesso digitale e partecipazione alle risorse culturali, rafforzamento della cooperazione internazionale e della condivisione delle conoscenze sono altri temi toccati dal documento che ha un punto dedicato all’Ucraina, “da assistere, se necessario, nell’affrontare le minacce al suo patrimonio culturale e la sua urgente conservazione”.

 

foto Consiglio d’Europa

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Pianeta verde

Honduras: la Rete ecclesiale ecologica mesoamericana condanna l’omicidio di due difensori del creato

20 Mag 2022

La Rete ecclesiale ecologica mesoamericana (Remam) ha condannato, attraverso una nota diffusa ieri e firmata dal presidente, mons. Gustavo Rodríguez Vega, arcivescovo di Yucatán, il recente omicidio di due leader sociali in Honduras. Sono Donaldo Rosales, ucciso il 15 maggio, e Justo Benito Sánchez, morto il 30 aprile. “Denunciamo le minacce, gli attacchi e gli omicidi perpetrati contro i leader delle comunità che difendono i beni comuni”, si legge nella nota. Donaldo Rosales è stato delegato della Parola di Dio e membro attivo del Comitato ambientale dei Comuni del nordest di Comayagua (Camneco). Mentre era impegnato nelle celebrazioni comunitarie domenicali è stato aggredito da ignoti che lo hanno ucciso a sangue freddo.
Justo Benito Sánchez era membro del Movimento ambientalista di Santa Barbara; è stato assassinato in circostanze simili; al momento le indagini sono ancora in corso.
“Come Rete mesoamericana chiamata a proteggere la vita integrale, condividiamo il dolore e l’indignazione dei nostri fratelli della sezione honduregna della Remam”, prosegue il comunicato. L’organismo chiede “allo Stato e alle istituzioni di pubblica sicurezza dell’Honduras di indagare e trovare gli autori intellettuali e materiali di questi gesti”. Chiedono inoltre “alle autorità honduregne e alla comunità internazionale di adottare le misure corrispondenti per sradicare ogni tipo di violenza, in particolare quella contro coloro che difendono la nostra casa comune”.

 

foto DoveClub

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