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Sabotaggi e annessioni: prove tecniche di ‘pace fredda’?

Può essere letta in vari modi la concomitanza dei sabotaggi – avvenuti in acque territoriali svedesi e al largo delle isole danesi di Svalbard – con l’inaugurazione del Baltic Pipe tra Norvegia, Danimarca e Polonia e con il finanziamento della Commissione Ue per l’allaccio esteuropeo al gasdotto greco-azero

13 Ott 2022

di Giuseppe Casale*

A poche ore dalle esplosioni sui gasdotti baltici tra Russia e Germania, l’europarlamentare polacco Radoslaw Sikorski (capo della delegazione permanente Ue-Usa, già ministro della difesa e degli esteri a Varsavia nonché membro del direttivo del Gruppo Bilderberg), ha twittato “Thank you Usa”. Esultando per la fine del ricatto russo, ha ripostato la frase con cui Biden, il 7 febbraio, prometteva di archiviare per sempre il Nordstream 2 in caso di attacco all’Ucraina. Poco vale ridurre ciò ai tipici sentimenti germanofobi e russofobi dei polacchi. Il messaggio sollecita l’analisi, articolata su più livelli, di un segnale forse di svolta.

L’ipotesi dell’autosabotaggio russo rimanda all’obiettivo di Putin di lasciare l’Europa alla canna del gas in inverno, senza pagare penali per inadempimenti contrattuali. Il movente però non convince granché. Sì, perché piuttosto che danneggiare definitivamente i propri tubi, è preferibile chiudere il rubinetto, conservando, con la facoltà di riaprirlo, un potere negoziale non da poco. Inoltre perdere l’alternativa baltica spunta le armi del Cremlino sul versante ucraino, che fino a ieri poteva chiudere il gas a Kiev compensando le perdite con la riapertura del Nordstream 1.  Quanto alle penali, la Russia già da febbraio sa che le pioveranno addosso le condanne per danni di guerra. Ostracizzata dalla governance internazionale su cui l’Occidente fa affidamento, figuriamoci se riconoscerebbe la legittimità di verdetti ingiuntivi per la violazione dei contratti: quale ufficiale giudiziario si incaricherebbe di eseguirli coattivamente?

Certo Washington, che da anni ostenta disappunto per i due gasdotti, non ha di che rammaricarsi. Nel 2021 la Casa Bianca ha istituito un apposito ufficio per impedire l’attivazione del secondo tubo, mentre da tempo il Congresso auspica ritorsioni contro l’ostinazione tedesca a gettare ponti tra Europa e Russia. I venti di guerra ucraini, si sa, hanno portato Berlino a più miti consigli, sospendendo il varo del Nordstream 2. Perché tanta preoccupazione? L’aggiramento settentrionale al pedaggio ucraino di Gazprom, oltre a marginalizzare i soci russofobi esteuropei, rafforza la liason euroasiatica condannata dagli Usa, crucciati per le “infedeltà” del multilateralismo in seno a un blocco euroatlantico non più blindato come ai tempi della Cortina di ferro.

Può essere letta in vari modi la concomitanza dei sabotaggi – avvenuti in acque territoriali svedesi e al largo delle isole danesi di Svalbard – con l’inaugurazione del Baltic Pipe tra Norvegia, Danimarca e Polonia e con il finanziamento della Commissione Ue per l’allaccio esteuropeo al gasdotto greco-azero.

Ma c’è un altro dato su cui fermarsi: la coincidenza con i referenda per l’integrazione degli oblast ucraini occupati nella Federazione russa. Essi sono stati interpretati come il gioco al rialzo di Putin per giustificare la mobilitazione parziale e soprattutto per minacciare il ricorso al nucleare previsto dalla dottrina militare russa per la difesa del territorio nazionale. Eppure, anticipati dall’indiscrezione di Erdogan sull’intenzione del Cremlino di trattare l’armistizio, i due discorsi di Putin sulla mobilitazione e alla firma dei decreti post-referendari hanno particolarmente insistito sulla mancanza di volontà in Occidente (non a Kiev) a negoziare davvero. A seguire, la dichiarazione contraddittoria di Zelensky, che ha sì definito la pace possibile solo dopo la riconquista totale, ma si è detto pronto a trattare solo quando il Cremlino avrà un altro inquilino: significa chiamare al tavolo direttamente Washington?

Questo mentre il fronte russo in Donbass cede, ma Kiev conta truppe ormai dimezzate, paventando la sproporzione con i numeri disponibili per Mosca. Non solo: alla nuova richiesta ucraina di adesione accelerata alla Nato, stavolta la Russia, per bocca della portavoce di Lavrov, ha reagito non con un altolà, ma con uno sprezzante “peggio per loro, ognuno per la sua strada”.

Lo scenario di sabotaggi e annessioni potrebbe rispondere a una logica speculare del “fatto compiuto”, a precostituire la soddisfazione unilaterale dei rispettivi obiettivi e tracciare le condizioni minime non negoziabili per cessare il fuoco. Assicurarsi la striscia russofona sul Mar Nero significherebbe per il Cremlino conseguire una vittoria moralmente e strategicamente accettabile. Per Washington, la fine del Nordstream sancirebbe simbolicamente la “polonizzazione” dell’Europa, sintonizzata sull’americanismo senza riserve. Ma il taglio anche solo provvisorio del ponte energetico alle spalle della Germania corona la demonizzazione della Russia, estirpando la tentazione di ripristinare le relazioni anteguerra. E serra i ranghi atlantici in funzione del contenimento cinese nel un nuovo ciclo della politica globale. Nella radicalizzazione bipolare, poco male se ciò spinge Mosca nelle braccia di Pechino, quando sortisce l’effetto di intimidire i restanti Brics e i Paesi che, bussando alla porta della Cooperazione di Shanghai, sperano di ricavare dal cuneo cinese i margini per giocare su più tavoli.

Non sono previsioni, ma rilevazioni in controluce delle occasioni apparecchiate dai fatti. Neanche del tutto ottimistiche, se prospettano la normalizzazione di una “Pace fredda” affidabile quanto un futuro impostato sul registro dello scontro di civiltà.

 

*Pontificia università lateranense

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