Editoriale

Un permanente assalto alla diligenza

Foto tratta dall'archivio di Nuovo Dialogo
13 Nov 2023

di Emanuele Carrieri

È dagli inizi degli anni Ottanta che i leader di tutti gli schieramenti politici – più i leader che gli schieramenti – suggeriscono di ovviare alle inefficienze del sistema dei partiti e del loro modo di governare modificando la Costituzione. Un permanente assalto alla diligenza, o come scrisse Michele Ainis, saggista, costituzionalista, opinionista, la “Costituzione è finita sotto assedio, circondata da truppe armate e senza alcuna vergogna di sé e delle proprie proposte”. Modifiche ce ne sono state, ma non hanno mai intaccato il nucleo della Carta quanto all’equilibrio dei poteri, alle funzioni di governo e presidente della Repubblica e al modo in cui vengono scelti. Ogni tentativo di modificarne alla radice l’assetto è fallito, o perché i partiti non sono riusciti a trovare l’accordo o perché gli elettori hanno bocciato nelle urne le leggi costituzionali che in Parlamento non avevano avuto la maggioranza qualificata e dunque andavano sottoposte al giudizio popolare. All’elenco di politici che, scaricando sul “sistema che non funziona” offrivano la cura della riforma costituzionale, si è aggiunta anche Giorgia Meloni, che se fino al giorno prima di mettere piede a Palazzo Chigi propugnava la elezione diretta del presidente della Repubblica, una volta al governo ha cambiato idea e ora lo slogan è il premierato, in altre parole l’elezione diretta del capo del governo. La premier ha definito il disegno di legge di appena cinque articoli la “madre di tutte le riforme” e “un’enorme rivoluzione” per il Paese. Dopo un anno di governo, ha calato la sua carta più pesante: quella volta a cambiare la Costituzione, ridisegnando l’equilibrio dei poteri fra il capo dello Stato (eletto dal Parlamento, che perde poteri e va a finire in un chiaroscuro notarile) e il capo del Governo (eletto dal popolo e che di poteri senza dubbio ne acquisisce). E poi c’è l’avanti tutta a dritta alla norma cosiddetta “antiribaltone” per assicurare la stabilità dei governi e che impedirà la formazione degli esecutivi di “tecnici” o di governi retti da maggioranze politiche diverse rispetto a quelle risultate vincenti alle elezioni. L’ipotesi dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, molto ardita, si è dissolta nei primi mesi di governo per far posto all’elezione diretta del presidente del Consiglio, ritenuta più praticabile se si considera la sua l’età e la sua storia politica: difficilmente potrebbe immaginare di poter salire al Quirinale sull’onda di un voto popolare che si pronuncerebbe solo sulla persona e non sulla persona sostenuta da un partito e da una intesa politica. La premier ha deciso di stare sul palcoscenico anche dopo la fine della legislatura: l’essenziale era cercare una soluzione forte e capace di catalizzare l’interesse di uno elettorato stanco che continua a frequentare poco le urne. Ecco la rivoluzione promessa e il “mai più governi tecnici” mettendo in disparte il fatto che questi più che frutto di complotti internazionali sono stati l’esito obbligato di crisi profonde alle quali la politica non riusciva a offrire le risposte adeguate. I governi tecnici sono il sintomo di una malattia, non una cura: tant’è che, quando hanno avuto successo nel medicare alcuni elementi patologici del sistema italiano, il successo è stato precario e oggetto di tentativi di revisione. Se il progetto andasse in porto, il primo effetto non è la governabilità ma l’alterazione degli equilibri costituzionali espressi dalla carta, spostando la bilancia a favore del capo del governo. Si pensi al risultato elettorale: lampante è che la coalizione vincente abbia la maggioranza assoluta nella valutazione popolare, ma se, la coalizione ottiene una maggioranza relativa, per di più scarsa e di pochissimo superiore alla coalizione avversaria, in presenza anche di un’alta astensione, il premio di maggioranza del cinquantacinque per cento è un regalo inconsueto. Con la nomina dei ministri nelle mani del premier si toglie una delle prerogative, e fonte di equilibrio, finora attribuite al presidente della Repubblica, il quale nomina i ministri su indicazione del presidente del Consiglio incaricato. Ciò significa che fino ad oggi, il capo dello Stato aveva la possibilità di evitare la nomina di persone inadeguate o portatrici di interessi diversi. Ed è accaduto. Quanto poi alla sfiducia costruttiva, è vero che sarebbero più difficili le imboscate parlamentari o quegli intrighi interni alla coalizione di maggioranza che in passato hanno portato a crisi di governo. Ma la soluzione che prevede che il nuovo presidente del Consiglio sia scelto nella maggioranza che ha vinto al voto sarebbe in conflitto con l’impianto costituzionale voluto: chi supplisse al posto dello “sfiduciato costruttivamente” non sarebbe stato scelto dagli elettori e quindi svanirebbe la ratio su cui si fonda la modifica della Carta. E non sarebbe la prima volta che a scegliere non siano gli elettori. Le ultime riforme elettorali, dettate anzitutto dal desiderio dei partiti che le hanno via via pensate e approvate, si fondano sul principio che sono i partiti, e non gli elettori, a decidere chi sarà parlamentare, perché con le liste bloccate si priva l’elettore della possibilità di scegliere. Sarebbe un bel risultato se si arrivasse alla consapevolezza che le riforme vanno fatte negli interessi della collettività e, soprattutto per quella costituzionale, siano approvate e condivise dalla più ampia maggioranza parlamentare e di tutto il Paese. Nel 2016 Renzi propose una riforma costituzionale, perse e si dimise: la premier dice di non voler legare il suo destino all’esito di un referendum, ma è chiaro che se dovesse materializzarsi un “no” avrebbe il sapore di una sentenza sul suo governo e forse anche sul suo destino.

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